Il pauperismo ambientalistico che blocca lo sviluppo
Prendendo spunto dal film di Riccardo Milani, “La vita va così”, ispirato alla vicenda di Ovidio Marras, un pastore sardo che anni fa rifiutò di vendere il proprio terreno sulla costa a degli immobiliaristi che intendevano costruirci sopra un resort, Adriano Bomboi svolge una riflessione sull’ideologia pauperistica dell’ambientalismo.
“Cosa accade quando un territorio, grazie ai trasferimenti garantiti, perde qualsiasi incentivo alla crescita? Finisce per interpretare ogni investimento come uno strumento di sopraffazione capitalistica del paesaggio e dei suoi abitanti.
Come ripeto da anni, “il fare” diventa sinonimo di speculazione, viceversa, il “non fare” diventa strumento teocratico di tutela. Una totale assenza di equilibrio che porta un intero territorio all’immobilismo, preservando, non l’ambiente, ma la disoccupazione, l’abbandono delle terre e l’emigrazione dei giovani che non vogliono rassegnarsi a vivere di assistenzialismo. Ed è proprio chi rimane nel territorio spesso ad agitare tali proteste contro gli investimenti, compresi coloro che vivono di assistenzialismo, e che magari al posto di Ovidio non ci avrebbero pensato due volte a vendere la terra, pastori inclusi.
Osserviamo insomma una diffusa teologia della povertà elevata a conformismo, che ha nell’ambiente il suo feticcio di riferimento. Chissà che ne penserebbe oggi un sociologo di scuola funzionalista come Robert K. Merton, il quale ci insegnò che non sempre gli attori sociali operano consapevolmente per la crescita collettiva. Interpreterebbe i nostri attori della conservazione come “devianze”?
Tra questi attori vi sono indubbiamente pure i nostri politici, personaggi mediocri che riproducono il proprio potere grazie all’elargizione di assistenza e al completo rifiuto di imbarcarsi in riforme strutturali che potrebbero portare allo sviluppo socio-economico del territorio. Perché se attuassero tali riforme, verrebbe meno il voto organizzato dei clientes che consente la loro rielezione.
Ma attenzione, pensate forse che lo sviluppo consista solamente nel fare un hotel più a misura di ambiente? O pagare meglio i suoi dipendenti? Oppure ancora pensate che lo sviluppo consista nel raggiungere la produttività agricola per ettaro raggiunta dal Trentino-Alto Adige?
Sbagliato. Tanto il turismo quanto l’agroallevamento sono i due pilastri economici dei paesi poveri.
Chi pensa che l’uno sia ideologicamente contrapposto all’altro è ben lontano dall’aver compreso la natura del nostro sottosviluppo. Una sana economia dovrebbe operare autonomamente per una diversificazione del suo tessuto produttivo, formandosi e specializzandosi anche in professioni ad alto valore aggiunto, e dunque tecnologicamente avanzate.
Prendiamo come esempio proprio il Trentino-Alto Adige, che si presta alla perfezione al ragionamento in cui intendo invitarvi: quando pensiamo a tale regione autonoma del nord, la prima cosa che potrebbe venirci in mente sono l’ambiente, le produzioni agricole, come le mele. Ma anche l’accoglienza turistica del suo patrimonio naturalistico e montano, che a differenza del turismo balneare ha pure la capacità di estendersi per tutto l’anno.
Ma c’è di più. Cosa ci sta sfuggendo del Trentino? Qualcosa che non tutti sanno, cioè che possiede un’economia notevolmente più diversificata di quella sarda. Un esempio tra i vari?
Mai sentito parlare delle Acciaierie Valbruna? A Bolzano vi è una sede di un’azienda leader nel settore della siderurgia che produce superleghe per impieghi civili, aerospaziali e militari. Ossia includente professioni ad alto valore aggiunto (e dunque anche dai salari più alti, ben diversamente dal settore turistico e da quello rurale).
Proprio così, nel cuore di una delle regioni più rinomate in termini ambientalistici, esiste anche uno dei poli produttivi ritenuti a maggior impatto ambientale. E ciò nonostante nessuno urla di fronte ai suoi cancelli parlando di “colonialismo” o “speculazione”, né si indicono campagne-stampa per chiuderne le produzioni, né nascono comitati in tutta la regione per fermare tale lavoro.
Certo, da noi (in Sardegna) gli eventi hanno preso un’altra piega, perché il nostro pauperismo ci spinge a dire no a tutto: sia ad aziende energivore simili, che non a caso qui sono già fallite anni fa, sia ad impianti di energie rinnovabili che petrolchimici, per non parlare del nucleare. Cioè imprese energetiche che dovrebbero alimentare nuovi poli industriali. Ma è molto difficile far capire tali concetti a intellettuali mediocri che da tempo ripetono slogan del tipo: “La Sardegna produce già più energia di quella che consuma”. Come se non si trattasse anche di una merce esportabile, o come se il tessuto industriale dovesse rimanere statico e a numero chiuso per i secoli a venire.
Un altro elemento che molti nostri ammiratori di Ovidio Marras non conoscono, è che in Sardegna gli albergatori sono i primi alleati della conservazione nel settore primario dell’economia.
Vi starete domandando, in che modo gli albergatori hanno a cuore il mondo delle campagne sarde?
Per esempio sono i primi a non voler modificare il Piano Paesaggistico Regionale varato a suo tempo dalla Giunta Soru e la susseguente normativa urbanistica, agro incluso. Perché?
Non perché sia sbagliato di per sé avere una legislazione che tutela l’ambiente, o perché lo stia realmente tutelando nel suo insieme, ma perché l’impossibilità di sviluppare altri progetti alberghieri consente agli alberghi esistenti di evitare una maggiore concorrenza da parte di nuovi potenziali investitori del settore terziario. Come quelli che ci provarono nei terreni di Marras.
Una lobby molto forte, che ha il suo epicentro in Gallura. A cui siamo naturalmente grati per lo sviluppo locale che ha portato, ma che dovrebbe consentire meglio anche ad altre aree dell’isola di sviluppare maggiore competitività. Aree che, tuttavia, a loro volta, dovrebbero diversificare meglio la propria economia, senza occuparsi solamente di turismo o agricoltura, a meno che non si vogliano conservare bassi salari per l’eternità.
Nel frattempo tuttavia il valore immobiliare dei terreni non costieri cala drasticamente verso il basso e finiscono verso incuria, abbandono e incendi, alimentando ulteriormente anche il fenomeno dello spopolamento nelle aree interne dell’isola.
Adriano Bomboi (da facebook)

	
	
	
	
	
	
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