Dove ci porta il referendum sul Jobs act

Alcuni estratti da un articolo di Bruno Anastasia tratto da www.lavoce.info

PRIMA DEL JOBS ACT

Il primo quesito referendario, relativo al ripristino dell’art. 18, propone un parziale ritorno, per i lavoratori delle imprese con più di 15 dipendenti, alla “tutela reale” (reintegra sul posto di lavoro), come modificata da leggi successive (Monti-Fornero del 2012) e da interventi della Corte costituzionale.

Data l’aleatorietà del costo effettivo del licenziamento (se illegittimo), la normativa pre-Jobs act aveva un ben noto e riconosciuto effetto deterrente: che però si riversava, oltre che sui licenziamenti, anche sulle assunzioni a tempo indeterminato e sui processi di crescita delle imprese, trattenute sulla soglia dei 15 dipendenti.

La convinzione sottesa alle esigenze di riforma affermatesi nel 2015, a seguito di lunghi dibattiti sullo stato del mercato del lavoro italiano, era che la deterrenza funzionava troppo, proteggendo certamente i lavoratori una volta assunti ma, prima, scoraggiandone l’assunzione a tempo indeterminato; inoltre segmentava il mercato del lavoro dividendo nettamente insider (lavoratori ben inseriti e tutelati) e outsider (lavoratori scarsamente tutelati). Per ridurre questi effetti negativi era stata avanzata la proposta del “contratto a tutele crescenti” che perseguiva diverse finalità: semplificare (“Un nuovo contratto per tutti”  scrivevano Tito Boeri e Pietro Garibaldi nel 2008), incentivare le imprese ad assumere, favorire le assunzioni a tempo indeterminato, liberandole – anche prendendo esempio da altri paesi europei – dall’incertezza sui costi di licenziamento (vedi Pietro Ichino, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, 2011). In sostanza, meno deterrenza e più prevedibilità avrebbero dovuto massimizzare gli effetti positivi per tutti, imprese e lavoratori.

La proposta si trasforma nel 2015 in dettato legislativo. Le aspettative erano chiare: incremento delle assunzioni a tempo indeterminato e crescita dimensionale delle imprese, scontando il prezzo di un possibile incremento dei licenziamenti per il venir meno dell’effetto deterrenza. Decisivo era che il saldo occupazionale fosse positivo e trainato dall’incremento dello stock di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

COSA è SUCCESSO ALLE ASSUNZIONI

Il contratto a tutele crescenti diventa operativo il 7 marzo 2015, limitatamente ai dipendenti assunti dopo quella data da imprese con più di 15 dipendenti. E le assunzioni a tempo indeterminato esplodono: a fine 2015 sfioreranno i 2 milioni, record tuttora imbattuto, probabilmente imbattibile (….)

Più incisivi, dopo la pandemia, risultano i cambiamenti strutturali – soprattutto demografici ma anche tecnologici e professionali – che, per varie ragioni (riduzione dell’offerta di lavoro, ricerca di competenze particolari e altro), aumentando l’attenzione delle imprese per le strategie di fidelizzazione, sono all’origine della recente contrazione dell’incidenza del lavoro temporaneo (registrata nei dati Istat): negli ultimi 4 mesi disponibili, a partire da dicembre 2024, siamo scesi sotto il 14 per cento, il che vuol dire in valori assoluti un calo di circa 400-500mila unità rispetto ai valori massimi (oltre 3 milioni) raggiunti sia prima sia immediatamente dopo la pandemia.

CHE COSA E’ SUCCESSO AI LICENZIAMENTI

E i licenziamenti? Non dovevano crescere? L’introduzione del contratto a tutele crescenti non doveva provocare i “licenziamenti facili”, quasi all’anglosassone? Nulla di nulla. (….) I licenziamenti tendono a diminuire, per l’effetto principe del miglioramento congiunturale, che conta più di tutto il resto. Poi è arrivata la pandemia, il blocco temporaneo dei licenziamenti economici e il successivo dibattito sui tempi per il ritorno alla “normalità”: se affrettati, si sarebbe rischiato – secondo alcuni presunti conoscitori del mercato del lavoro – un milione di licenziamenti. Ancora una volta nulla di tutto questo.

DUE QUESITI CON UN OBIETTIVO POLITICO

Ritenere dunque che il Jobs act abbia inferto un vulnus imperdonabile alle tutele dei lavoratori appare, sul piano degli effetti ottenuti, indimostrato. Che se poi allarghiamo il giudizio all’insieme degli interventi previsti con il Jobs act – dal ridisegno dell’indennità di disoccupazione con la Naspi alle restrizioni introdotte per i contratti parasubordinati a progetto e di associazione in partecipazione fino alla spinta alle politiche attive e altro ancora – la valutazione che “prima era meglio” appare, ancora più nettamente, un riflesso di giudizi conservatori e superficiali. E quindi il referendum, relativamente al primo e al terzo quesito (recupero della reintegra e delle causali per il tempo determinato), mostra ciò che vuole sostanzialmente, tutto sul piano politico: costringere il Pd a riconoscere di aver sbagliato, obbligarlo al mea culpa per essere andato troppo in là nel riformismo.

Che la regolamentazione dei rapporti di lavoro debba essere ancora rivista e precisata, anche alla luce degli interventi recenti della Corte costituzionale, è del tutto logico (chiare al riguardo sono le  indicazioni di Pietro Ichino). Come pure non è affatto risolto il problema della precarietà: il calo significativo dei contratti a termine non basta. Molto si dovrebbe fare in più sul terreno dei controlli: se ci fosse un garante che si preoccupasse dei dati che non vengono utilizzati dalle amministrazioni pubbliche, avrebbe ampia materia di indagine. Basterebbe relativamente poco per guardar dentro le informazioni che le imprese trasmettono alle autorità pubbliche in tempo reale (a cosa serve altrimenti la digitalizzazione?) e restituire alle stesse segnalazioni immediate sullo sforamento dei tanti vincoli quantitativi (eventualmente, questi sì, da rafforzare) che già oggi la normativa prevede per i contratti a termine, senza ritornare alle causali, la cui opinabilità consegna ai giudici (imprevedibili) la valutazione sui fabbisogni occupazionali delle imprese. E senza dimenticare che tanti casi di precarietà immotivata e di bassi salari si radicano non tanto nei contratti a termine propriamente intesi ma in altre tipologie di rapporti di lavoro mal utilizzate: part-time troppo flessibili, intermittenti senza regole d’orario, tirocini ripetuti, partite Iva pretestuose. Questioni su cui reintegra e causali non c’entrano.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *