La non scissione di Renzi

Ci si può scindere da un partito dal quale ci si era già allontanati da tempo? La decisione di Renzi di uscire dal Pd non è una sorpresa, ma un atto coerente con un percorso iniziato quasi dieci anni fa. L’incontro annuale della Leopolda, infatti, partì nel 2010. Anche negli anni ai vertici del partito e del governo la Leopolda non ha mai perso il carattere di iniziativa di un gruppo che si riconosceva esclusivamente nella leadership di Renzi. La struttura del nuovo movimento – Italia viva – d’altra parte si sta formando da oltre un anno intorno ai comitati civici (e alle loro proiezioni sui social media) che raccolgono migliaia di militanti. Tutto al di fuori del Pd. Non si può certo dire che la decisione di Renzi sia una manovra di “palazzo” né che non fosse prevista.

Sicuramente se lo avesse voluto Renzi avrebbe potuto condurre la sua lotta politica nel Pd puntando a far prevalere le sue idee con la concreta speranza di allargare i suoi consensi. D’altra parte ha vinto le primarie due volte. L’unico reale ostacolo è sempre stata la convivenza tra le diverse anime presenti in quel partito con le quali aveva già dovuto fare i conti dopo la prima elezione a segretario nel 2013. Al termine di accesi scontri politici esponenti di primo piano come D’Alema e Bersani lasciarono il Pd perché consideravano inaccettabili le scelte politiche della maggioranza raccolta intorno a Renzi. Scelte che, però, passarono. Ciò che rese difficile mantenere la guida del governo fu la sconfitta al referendum del dicembre 2016. Una più accorta gestione della riforma costituzionale da parte di Renzi non avrebbe portato al suo allontanamento dal governo e, forse, avrebbe influito anche sulle successive elezioni politiche. Le dimissioni definitive dalla guida del partito arrivarono invece dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo 2018. Il cambio di orientamento politico del Pd fu sancito con l’elezione di Zingaretti a segretario dopo un lungo anno di sbandamento del partito privo di una vera guida politica. Quella fase di interregno resta difficilmente spiegabile e giustificabile in termini politici e sicuramente ha danneggiato il Pd e ha influito sulle vicende politiche nazionali. Fu, comunque, un periodo nel quale Renzi fece valere la sua autorevolezza sia ostacolando l’elezione di una nuova maggioranza alla guida del partito, sia impedendo un accordo col M5s per una maggioranza di governo. Si trattò, quindi, di una dimostrazione evidente di forza politica che si è ripetuta con la svolta del governo Conte 2 spinta e voluta innanzitutto da Renzi. Il quadro politico italiano che sembrava fatalmente avviato sulla strada di elezioni anticipate e di un monocolore sovranista a guida Salvini, ne è uscito sconvolto. Renzi ha registrato un’indubbia vittoria politica.

E allora perché l’uscita dal Pd? Motivazioni politiche serie non ci sono, ma ce n’è una che le sovrasta tutte: la volontà di Renzi. La politica (come la storia) è fatta dalle persone e non procede su binari predeterminati dalla logica e dalla ragione. Sono le persone che decidono la strada da costruire e una personalità forte come quella di Renzi può legittimamente cambiare il corso delle cose. O, almeno, provarci. Altro da dire non c’è.

Ci saranno, però, delle conseguenze. Non tutte prevedibili, ma alcune si possono già immaginare. Innanzitutto una maggiore instabilità dovuta a nuovi equilibri nella maggioranza di governo. Una cosa è un patto tra due partiti più Leu che ha un peso minore; altra cosa è che siano tre i partiti uno dei quali di Renzi con una forte spinta alla competizione.

Altra conseguenza è sul combinato taglio dei parlamentari/legge elettorale. Difficilmente il M5s rinuncerà al suo cavallo di battaglia (al quale incomprensibilmente attribuisce un grande valore). La conseguenza sarà un effetto maggioritario implicito nel taglio dei seggi che potrà essere corretto solo da una legge elettorale interamente proporzionale. D’altra parte il nuovo partito di Renzi non potrà aspirare ad affermarsi con un sistema maggioritario e, quindi, spingerà per il proporzionale, l’unico che gli conferirà il ruolo di ago della bilancia che le formazioni politiche di centro hanno sempre avuto.

Poiché l’interesse dei tre partiti – M5s, Pd, Italia viva – sarà di evitare elezioni anticipate è prevedibile che il ritorno al proporzionale puro sarà inevitabile. Il proporzionale però ha sempre alimentato gli appetiti dei partiti interessati a conquistare parti dell’elettorato più che garantire la governabilità. Finisce l’epoca nella quale si è tentato di dare ai cittadini il potere di scegliere il governo e il suo programma. Già con la legge attuale si è dimostrato come i risultati elettorali abbiano consentito due maggioranze alternative. In futuro saranno possibili combinazioni diverse con accordi post elezioni.

Tutto ciò accade in una fase di transizione molto delicata in Europa e in Italia. In Europa il tentativo è di trasformare politiche, patti e governance nella stabilità. Nel corso dei prossimi anni sono prevedibili molti cambiamenti che incideranno direttamente sulla situazione italiana. D’altra parte l’Italia si trova in un momento molto difficile perché i nodi di uno sviluppo difficile restano tutti lì. L’Italia è bloccata da un intreccio di problemi formatisi nel corso di molti anni. L’instabilità e la competizione per il consenso inevitabili con una pluralità di partiti non sono certo una risposta giusta per affrontarli. D’altra parte andare al traino dell’Europa con la destra sovranista pronta a rovesciare gli equilibri pompando ogni motivo di malcontento sarebbe un disastro.

La non scissione di Renzi si realizza in questo contesto. Forse allargherà l’offerta politica riportando al voto una parte degli astenuti. Forse influirà sul governo con proposte costruttive e di forte rinnovamento. O forse non ci riuscirà. Vedremo

Claudio Lombardi

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