Le terre rare, l’Afghanistan, la Cina e l’Occidente
Pubblichiamo un intervento di Gianclaudio Torlizzi, già caporedattore a Dow Jones, ora direttore generale di T-Commodity, pubblicato sul suo profilo Facebook
Caratterizzato da un territorio prevalentemente arido e montuoso dominato dall’Hindu Kush, l’Afghanistan da oltre 30 anni a questa parte non manca di suscitare a intervalli regolari un grande interesse di natura strategica non solo per la geografia che ne fa un crocevia (a volte di terroristi) tra Asia e l’Europa, ma anche per l’elevata presenza di minerali nel sottosuolo. I primi a comprendere il potenziale nascosto nel sottosuolo afgano erano stati i sovietici impegnati in una complicatissima invasione terminata poi con il ritiro nel 1989. Fu però quando la CIA entrò in possesso dei dossier preparati dagli esperti di Mosca, in occasione della cacciata dei talebani per mano dell’esercito americano nel 2001, che la questione relativa alla presenza di minerali del sottosuolo afgano venne nuovamente affrontata. Il mandato di capire quanto potenziale nascosto si trovasse nelle viscere del paese venne affidato nel 2006 agli analisti dello U.S. Geological Survey, richiamati in fretta dall’Iraq dove erano impegnati nelle rilevazioni petrolifere. Dopo una serie di ricognizioni, gli esperti stabilirono come in quello che sembrava un territorio inospitale e arido giacessero in realtà 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 milioni di tonnellate di minerale di ferro, 1,4 milioni di tonnellate di terre rare oltre a oro, argento, zinco, litio e mercurio. Lo studio prodotto dai geologi statunitensi tuttavia non ebbe un seguito: il minerale depositato nel sottosuolo è rimasto lì fermo, ad attendere forse un nuovo ‘studio di fattibilità’ che con il disordinato ritiro dell’esercito statunitense forse starà ora alla Cina redigere. Proprio il fatto che il Celeste Impero possa in qualche modo accaparrarsi i minerali depositati in Afghanistan ha fatto arricciare il naso a qualche osservatore in questi ultimi giorni. Mano a mano che il processo di elettrificazione va avanti in ragione delle politiche ambientali, il timore è infatti che la presa del Celeste Impero su materiali considerati strategici per la transizione ecologica possa farsi ancora più stretta. E’ un fatto d’altronde che sia Usa che Europa dipendano rispettivamente per l’80% e il 98% dalla Cina per la fornitura di terre rare, materiali in assenza dei quali non sarebbe possibile produrre batterie al litio, pale eoliche e pannelli solari. Ma ammesso e non concesso che i rappresentanti del governo di Pechino riescano dove hanno fallito gli americani, cioè a impossessarsi delle ricchezze afgane, lanciare allarmi di natura geostrategica rappresenta senza dubbio un’esagerazione.
In primo luogo occorre evidenziare come il problema delle terre rare nasca non tanto dalla loro carenza ma dal processo altamente inquinante che ha spinto negli ultimi anni l’Occidente a esternalizzare il processo in Cina. Il paradosso della rivoluzione ‘verde’ infatti è che l’opinione pubblica, pur essendone fermamente favorevole non vede di buon occhio, per usare un eufemismo, le miniere e fonderie necessarie per attuarla. Un caso emblematico è stata la chiusura della miniera americana di Mountain Pass in California nel 2002, che ha di fatto chiuso la stagione dell’estrazione di terre rare negli Usa. In secondo luogo, ora che le prospettive di consumo di energia elettrica da fonti rinnovabili è destinata ad aumentare in maniera cospicua, il focus dei policymaker è tornato a puntare sullo sviluppo dell’estrazione e raffinazione di metalli. E’ in quest’ottica che va letta la riapertura della miniera di Mountain Pass, acquistata per bancarotta nel 2017 da MP Materials, veicolo di investimento controllato per il 51,8% dai fondi statunitensi JHL Capital Group e QVT Financial. La miniera ha prodotto 26.000 tonnellate di materiale nel 2020, pari al 12% della produzione globale, secondo l’USGS. L’autosufficienza è però ancora lontana se si pensa che i minerali estratti nella miniera di Mountain Pass vengono poi spediti in Cina per essere raffinati e questo spiega il motivo per cui nel capitale della MP Materiale è presente per l’8% anche la cinese Shenghe Resources. Anche l’Unione Europea ha intensificato recentemente la spinta per diventare meno dipendente dalle materie prime importate come le terre rare e il litio. “Per la maggior parte dei metalli, l’UE dipende dalle importazioni per una percentuale compresa tra il 75 % e il 100 % si legge nel “Critical Raw Materials Resilience: Charting a Path towards greater Security and Sustainability” pubblicato nel settembre 2020 in scia alle interruzioni della catena di approvvigionamento causate dall’epidemia di coronavirus.
In terzo luogo, anche se la Cina domina oggi la filiera dell’elettrico, non arriverà allo stesso grado di influenza geopolitica dell’Arabia Saudita e altri paesi del Medio Oriente hanno dominato l’offerta di petrolio. Limitare le spedizioni di batterie potrebbe portare a prezzi più elevati e ritardi per le nuove auto elettriche, ma non avrebbe alcun impatto sulla capacità delle persone di spostarsi oggi con i propri veicoli come accadde nel corso dell’austerity degli anni 70. “Lo scollegamento dalla Cina – ha evidenziato il Centro per gli Studi Strategici e Nazionali in un nota recente – è impossibile oggi e in futuro sarà improbabile oltre che probabilmente costoso”. Effettivamente gli Stati Uniti hanno impiegato quasi 50 anni per raggiungere l’autosufficienza energetica a cui il presidente Nixon mirava per la prima volta nel 1973 e che è stata resa possibile solo grazie all’innovazione tecnologica del fracking che ha posto le basi del boom dello shale oil. I paesi occidentali insomma dovrebbero concentrarsi, invece sulla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e accettare un livello di interdipendenza con la Cina. Se i paesi occidentali non possono eliminare la loro dipendenza dai minerali critici cinesi, dovrebbero cercare di gestire tale dipendenza nello stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno gestito le loro relazioni petrolifere con l’Arabia Saudita o la Germania le sue relazioni sul gas con la Russia. Nel caso delle relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e la Cina, in particolare, esiste una vulnerabilità reciproca che potrebbe spianare la strada a un potenziale accordo per proteggere determinati materiali considerati strategici. Se infatti da un lato gli Usa dipendono dalla Cina per la fornitura di terre rare, nel comparto dei semiconduttori i primi detengono una quota di mercato di quasi il 50% a livello mondiale.
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