L’Urss che puntò su arabi e palestinesi
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica cercò alleati nel mondo in via di sviluppo per contrastare gli Usa. Mentre l’Europa occidentale veniva integrata nel blocco atlantico, Mosca volse lo sguardo al mondo arabo e all’Africa post-coloniale, ritenendo che lì si potessero trovare partner naturali contro l’“imperialismo occidentale”.
All’inizio, l’URSS sostenne la nascita dello Stato di Israele nel 1948, vedendolo come un possibile alleato socialista in Medio Oriente. Ma questa posizione cambiò rapidamente quando Israele si avvicinò agli USA e alle potenze europee. Da allora, l’URSS dirottò il suo appoggio sul fronte arabo, in particolare a partire dalla crisi di Suez (1956), con l’obiettivo strategico di trasformare il conflitto israelo-arabo in un campo di battaglia ideologico tra socialismo e capitalismo.
I leader arabi del tempo, come Gamal Abdel Nasser in Egitto, Hafez al-Assad in Siria o Ahmed Ben Bella in Algeria, si presentarono come campioni del socialismo arabo: una forma di socialismo nazionalista, laico, anti-occidentale, che trovava nella retorica antisionista un efficace collante ideologico. La lotta contro Israele divenne così strumento di mobilitazione interna e simbolo dell’opposizione all’egemonia occidentale.
L’URSS finanziò, armò e addestrò molte milizie palestinesi (Fatah, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ecc.), sostenne politicamente la causa araba all’ONU e alimentò una narrativa che legava il sionismo al colonialismo europeo, trasformando Israele nel nemico simbolico del Sud globale.
In parallelo, a partire dagli anni ’60, in Europa e America Latina prende piede il terzomondismo: un’ideologia che considera i paesi del “Terzo Mondo” (Africa, Asia, America Latina) come vittime dello sfruttamento imperialista da parte dell’Occidente capitalista. In questo schema, Israele diventa la longa manus dell’Occidente in Medio Oriente, e la causa palestinese si trasforma in emblema della resistenza dei popoli oppressi.
La sinistra radicale europea, alimentata da movimenti studenteschi e post-coloniali, abbraccia il linguaggio dell’anti-imperialismo, e con esso un antisionismo ideologico che travalica la critica alla politica israeliana per trasformarsi in opposizione all’esistenza stessa di Israele come Stato ebraico. Questa visione si alimenta delle narrazioni provenienti da Mosca, Damasco e Algeri, e trova un fertile terreno nei partiti comunisti occidentali e nei movimenti extraparlamentari.
La Risoluzione ONU 3379, approvata nel 1975 con il decisivo appoggio del blocco sovietico e del Movimento dei Paesi Non Allineati, sancisce il culmine di questa convergenza ideologica, dichiarando che:
“Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale.”
Questa risoluzione fu possibile solo grazie alla saldatura strategica tra URSS, mondo arabo e Paesi post-coloniali, con la complicità passiva di molta sinistra occidentale. Gli Stati Uniti e altri paesi democratici la condannarono apertamente; Israele la definì un attacco alla sua stessa legittimità. La risoluzione verrà abrogata solo nel 1991, ma il danno ideologico era già fatto: l’equiparazione tra Israele e apartheid, tra sionismo e razzismo, è diventata un dogma persistente nella sinistra radicale.
Negli anni ’70-’80, la sinistra occidentale si riconosceva in organizzazioni laiche e nazionaliste come l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), in particolare nei gruppi marxisti come il FPLP, i quali vantavano legami organici con i partiti comunisti europei.
Con l’emergere del fondamentalismo islamico, in particolare dopo la rivoluzione iraniana del 1979 e la prima Intifada (1987), il mondo palestinese comincia a trasformarsi: Hamas nasce nel 1987 come branca dei Fratelli Musulmani, con un’ideologia apertamente teocratica, antisemita, totalitaria. A livello teorico, Hamas rappresenta l’antitesi dell’ideologia laica e socialista, ma nella prassi eredita l’aura di “resistenza anti-imperialista” che il terzomondismo aveva già costruito.
E qui accade qualcosa di paradossale: la sinistra europea – in particolare quella post-comunista e movimentista – non prende le distanze, ma rilegge Hamas attraverso le lenti del terzomondismo. Poco importa che Hamas persegua una visione religiosa integralista, che opprima le donne, perseguiti gli oppositori, imprigioni i giornalisti: ciò che conta è che sia “contro Israele”.
Nel XXI secolo, questa eredità non è stata elaborata criticamente. Anzi, in molti ambienti di sinistra – accademici, giornalistici, attivisti – il frame antisionista-terzomondista è diventato egemonico. I movimenti “decoloniali”, il linguaggio dell’“intersezionalità”, l’ossessione per la “whiteness” hanno finito per identificare Israele con l’Occidente bianco, coloniale e oppressore, e i palestinesi con i “racialized bodies” oppressi.
La conseguenza è una saldatura ideologica tra sinistra radicale e islamismo politico, in cui Hamas viene tollerato, se non giustificato, come “resistenza”. Le stesse logiche hanno portato a normalizzare slogan come “From the river to the sea”, ad accettare una lettura storica completamente deformata del conflitto israelo-palestinese, e a riproporre sotto nuova veste l’equazione: Israele = razzismo = apartheid.
Si tratta di un riuso mimetico della retorica anticoloniale che, pur ignorando i fatti storici e politici concreti, continua a esercitare un forte fascino sulle nuove generazioni militanti. Una lunga scia culturale che parte da Mosca, attraversa Algeri, passa per le università occidentali, e arriva oggi nelle piazze in cui si bruciano bandiere israeliane sotto le insegne del “progresso”.
Il legame tra URSS, mondo arabo e sinistra occidentale ha costruito una macchina ideologica potentissima, che ha saputo trasformare il conflitto israelo-palestinese in una lotta simbolica tra Bene e Male. In questa narrazione, Israele è l’aggressore coloniale, i palestinesi sono la vittima assoluta, e ogni forma di resistenza – anche la più sanguinaria – è giustificata.
Comprendere questa genealogia è oggi essenziale per smontare il paradigma errato che continua a deformare il dibattito su Israele e Palestina e a normalizzare l’odio antiebraico sotto le spoglie dell’“antisionismo”.
Roberto Damico (da facebook)



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