Usa: il sistema politico senza vie d’uscita

La democrazia americana, ammirata per la sua resilienza costituzionale e la chiarezza dei poteri, cela un paradosso inquietante: l’assenza di meccanismi flessibili per gestire crisi politiche gravi senza ricorrere all’impeachment o allo stallo istituzionale. A differenza delle democrazie parlamentari europee — come l’Italia o la Francia, dove il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere per sbloccare situazioni di ingovernabilità — o delle monarchie costituzionali come il Regno Unito, il Canada o l’Australia, dove il potere esecutivo può indire nuove elezioni, negli Stati Uniti non esiste alcun dispositivo costituzionale per abbreviare il mandato di un presidente eletto. L’unica eccezione è rappresentata dall’impeachment, una procedura estrema, politicamente divisiva e raramente efficace.

Mentre in Europa un governo può cadere per mancanza di fiducia o un parlamento può essere rinnovato attraverso elezioni anticipate, negli Stati Uniti un presidente rimane in carica per quattro anni a prescindere dalla sua popolarità o dall’effettiva governabilità del sistema. Anche in presenza di un Congresso paralizzato o di un’opinione pubblica ostile, non esiste una “valvola di sfogo” istituzionale che permetta di interrompere o rigenerare il ciclo politico. L’unico caso in cui un presidente ha lasciato l’incarico prima della scadenza naturale—le dimissioni di Richard Nixon nel 1974—fu il risultato di pressioni politiche e mediatiche, non di un meccanismo previsto dalla Costituzione. In mancanza di strumenti più ordinari, ogni crisi politica rischia di trasformarsi in una crisi sistemica.

In molte democrazie parlamentari esiste il principio della crisi controllata: un’interruzione regolata del processo politico che consente di superare impasse senza traumi istituzionali. In Germania, per esempio, il meccanismo della “sfiducia costruttiva” permette al Parlamento di sostituire il cancelliere solo se esiste già una maggioranza alternativa pronta a subentrare. Questo evita sia l’instabilità cronica che il blocco totale. Negli Stati Uniti, invece, la rigidità della forma presidenziale impedisce qualsiasi adattamento: l’intero sistema è costretto ad attendere il decorso naturale del mandato, anche a costo dell’immobilismo.

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Questa mancanza di elasticità spinge l’esecutivo a ricorrere a strumenti alternativi, talvolta borderline. Gli executive orders, comparabili ai decreti-legge italiani, consentono al presidente di governare bypassando temporaneamente il Congresso. Pur essendo soggetti a revisione giudiziaria, nella prassi hanno spesso alterato gli equilibri tra i poteri. Ancora più delicata è la questione dello emergency power: dichiarando uno stato d’emergenza (come fece Trump per la costruzione del muro col Messico o Biden per la crisi climatica), il presidente può accedere a poteri straordinari che comprimono la deliberazione parlamentare. In un sistema privo di un meccanismo di controllo immediato, simile alla mozione di fiducia europea, tali strumenti rischiano di normalizzare l’eccezione.

Il sistema americano sacrifica deliberatamente la flessibilità in nome della stabilità. Questo trade-off, concepito dai Padri Fondatori per evitare derive autoritarie, si sta rivelando sempre più inadeguato in un contesto politico iper-polarizzato e ad alta volatilità. Se da un lato evita i ricorsi frequenti alle urne o i cambi di governo a catena, dall’altro espone il sistema a un pericolo opposto: l’impossibilità di correggere in corsa situazioni di crisi o di paralisi.

Roberto Damico (da facebook)

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