Carne sintetica: un divieto inutile e dannoso

Pubblichiamo un  articolo di Vitalba Azzollini tratto da www.valigiablu.it

Nel Consiglio dei ministri dello scorso 28 marzo, il governo ha approvato, con procedura d’urgenza, un disegno di legge in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi sintetici. Il relativo comunicato stampa spiega che, «nel rispetto del principio di precauzione, le norme intendono tutelare la salute umana e il patrimonio agroalimentare attraverso il divieto di produzione e commercializzazione di alimenti sintetici». In caso di violazione, sono previste, tra l’altro, sanzioni da un minimo di 10.000 a un massimo di 60.000 euro, il temporaneo divieto di accesso a contributi, finanziamenti o agevolazioni erogati da parte dello Stato, di enti o dell’Unione europea, nonché la chiusura dello stabilimento di produzione per lo stesso periodo.

Il riferimento è, specificamente, alla cosiddetta carne sintetica – chiamata anche carne in vitro, coltivata in laboratorio, artificiale, cellulare o a base cellulare – che, in sintesi, è prodotta in laboratorio da cellule staminali animali, coltivate in bioreattori fino a diventare tessuto muscolare. È il caso di fornire qualche spiegazione in punto di diritto, dato che pare esserci molta confusione.

Le iniziative in atto

La carne sintetica è già oggetto di esame e valutazione in altri Stati. La Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo degli Stati Uniti che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha dato una prima autorizzazione ai nugget di carne di pollo coltivata di Upside Foods, una start up californiana.

Dopo i controlli su prodotti e passaggi della produzione svolti da FDA, per essere commercializzata la carne coltivata deve pure superare le verifiche del Servizio per la sicurezza alimentare e le ispezioni del Dipartimento dell’agricoltura (USDA-FSIS), e poi ottenere un parere positivo sui prodotti finali.

Ancora prima degli USA, Singapore ha autorizzato la commercializzazione di alimenti a base di carne coltivata. Ma anche l’Unione europea (UE) ha investito in questo settore, attraverso finanziamenti concessi ad alcune aziende che fanno ricerca, attraverso i fondi del piano REACT-EU (Recovery Assistance for Cohesion and the Territories of Europe/Pacchetto di Assistenza alla Ripresa per la Coesione e i Territori d’Europa). Inoltre, l’UE, nell’ambito del programma Horizon Europe (Orizzonte Europa), ha finanziato per il 2023-2024 un tema di ricerca dal titolo “Carne sintetica e prodotti ittici sintetici – situazione attuale e prospettive future nell’Ue”. Al riguardo, si spiega che tali prodotti «potrebbero essere considerati come una soluzione promettente e innovativa per aiutare a raggiungere gli obiettivi della strategia farm to fork», il piano decennale della Commissione europea per la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente. Lo scopo della ricerca è, tra l’altro, quello di sviluppare conoscenze sugli impatti di sostenibilità – ambientali, economici e sociali – dei prodotti considerati, nonché sulle connesse opportunità di ridurre emissioni di gas a effetto serra e inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo.

Secondo quanto afferma la Commissione europea, la carne coltivata potrebbe essere immessa sul mercato dell’UE dopo un’autorizzazione rilasciata in base alla legislazione sugli OGM o al regolamento sui “novel food”. Pertanto, serve esaminare cosa prevedono tali normative.

Gli OGM

Come si legge sul sito del ministero della Salute, «per organismo geneticamente modificato (OGM) si intende un organismo, diverso da un essere umano, in cui il materiale genetico (DNA) è stato modificato (…) con l’accoppiamento e la ricombinazione genetica naturale. L’applicazione delle moderne biotecnologie permette di trasferire tratti di geni selezionati da un organismo all’altro, anche di specie non correlate, per esempio tra batteri e piante».

La normativa di riferimento è rappresentata principalmente da un regolamento europeo del 2003 (n. 1829) che definisce la procedura di autorizzazione per l’immissione in commercio di un OGM o di un alimento o un mangime GM e stabilisce, tra l’altro, i requisiti specifici in materia di etichettatura. La domanda di autorizzazione deve essere corredata da un dossier informativo, sottoposto all’esame dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare)  sotto il profilo dei rischi per la salute umana. Il parere dell’Efsa è poi valutato dalla Commissione europea, che successivamente predispone una proposta di decisione da sottoporre all’approvazione degli Stati membri. Dopo la decisione, l’OGM e i relativi prodotti possono essere immessi sul mercato europeo, alle condizioni previste nel provvedimento. Gli OGM attualmente autorizzati e commercializzati sono piante (mais, soia, colza e cotone), nessuna delle quali viene coltivata in Italia a fini commerciali, anche se ne è consentita la vendita nel rispetto delle regole di etichettatura.

I “novel food”

I “novel food”, cibi nuovi, disciplinati in UE da ultimo con un regolamento del 2015 (n. 2283), sono alimenti o ingredienti alimentari per i quali non è dimostrabile un consumo “significativo” all’interno dell’UE al 15 maggio 1997, data del primo regolamento (n. 258). Si tratta di prodotti derivati da piante, alghe, funghi e insetti, ma anche di alimenti ottenuti da nuove tecnologie, come nanotecnologie e ingegneria genetica. Può rientrarvi, pertanto, anche la carne sintetica.

Nella domanda di autorizzazione alla Commissione per la messa in commercio di un “novel food” vanno riportati tutti i dati scientifici a supporto della sicurezza del suo consumo. L’alimento è valutato dall’Efsa per diversi aspetti, quali la possibilità di rischi per la salute umana, la corretta etichettatura, l’assenza di svantaggi nutrizionali qualora esso sostituisca un alimento preesistente. A seguito del giudizio positivo dell’Efsa, la Commissione rilascia l’autorizzazione, inserendo l’alimento nell’elenco dei “novel food” dell’UE (Union list) e prevedendo eventualmente un monitoraggio successivo.

Per un alimento “nuovo” in UE, ma già in commercio in Paesi terzi, è prevista una procedura agevolata, con la trasmissione dei dati sulla sicurezza d’uso nel paese di approvazione. Questa procedura potrebbe essere utilizzata per la carne prodotta in laboratorio, che al momento non risulta nell’elenco dei “novel food” dell’UE.

La norma sulla carne sintetica

Che la carne coltivata in laboratorio sia ricompresa tra gli OMG o tra i “novel food”, l’immissione in commercio in UE non può avvenire prima che la Commissione UE abbia rilasciato l’apposita autorizzazione, previa valutazione da parte dell’Efsa, una delle autorità del settore alimentare più severe al mondo. Di conseguenza, essa oggi non potrebbe essere venduta, nemmeno se autorizzata al di fuori dell’Unione.

Dunque, il divieto di ogni attività finalizzata alla distribuzione di tale tipologia di carne, disposto dal recente decreto, non ha alcun senso: la commercializzazione è già vietata, ai sensi della citata disciplina UE. Ma tale divieto non avrà alcun senso nemmeno in un futuro, qualora l’immissione in commercio di carne sintetica fosse autorizzata dall’UE: la chiusura disposta da parte dell’Italia sarebbe illegittima, poiché in contrasto con la libera circolazione delle merci, uno dei principi fondanti dell’Unione Europea (art. 34 del Trattato sul funzionamento dell’UE, TFUE). Né, in caso di autorizzazione, l’Italia potrebbe chiedere una deroga a tale principio per vietare la vendita dei prodotti in questione: la deroga potrebbe essere giustificata solo da un interesse generale di natura non economica (ad esempio, tutela della salute, ordine pubblico o pubblica sicurezza), non deve costituire una discriminazione o restrizione dissimulata e deve essere proporzionata. Dunque, non basterebbe accampare la tutela della tradizione alimentare italiana, come il governo fa spesso. Ma non si potrebbe nemmeno addurre come motivazione la salute pubblica in base al principio di precauzione, che peraltro il governo ha richiamato anche nel decreto in esame come giustificazione dei propri divieti. È il caso di verificare i motivi per cui tale principio non potrebbe essere invocato per chiudere il mercato italiano ai prodotti ricavati da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati.

Il principio di precauzione

Il principio di precauzione è previsto da un regolamento europeo del 2002 (n. 178, art. 7): qualora, in base a informazioni disponibili, si individui «la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie (…), in attesa di ulteriori informazioni scientifiche». Secondo la norma, tali misure devono essere proporzionate e limitate al necessario. Insomma, gestione del rischio non significa consentire solo attività o prodotti a rischio zero.

Anche se al momento manca l’autorizzazione della Commissione europea agli alimenti ricavati da colture cellulari, il richiamo al principio di precauzione nel recente decreto non ha fondamento. Innanzitutto, come affermato dalla Corte di giustizia europea (CGE, causa T-13/99), tale principio comporta che una misura restrittiva possa essere adottata solo se il rischio, pur se non pienamente dimostrato da prove definitive, appaia tuttavia supportato in modo idoneo dai dati scientifici disponibili al momento in cui la misura è stata adottata. Dunque, per sancire limitazioni all’importazione di carne sintetica, l’Italia avrebbe l’onere di fornire in sede europea dati giustificativi che attestino eventuali profili di rischio. Dati che al momento paiono assenti: come spiegato in conferenza stampa dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, oggi non ci sono «evidenze scientifiche sui possibili effetti dannosi dovuti al consumo dei cibi sintetici». In secondo luogo, l’FDA, ha già autorizzato tale tipo di alimenti, quindi c’è già un primo pronunciamento ufficiale che fuga timori di nocività (vedi anche CGE, causa C-6/99E). In terzo luogo, se fosse presentata alla Commissione UE la richiesta di autorizzazione all’immissione in commercio della carne sintetica quale “novel food” riconosciuto in un Paese terzo, com’è probabile, il relativo regolamento (art. 15) prevede che, entro quattro mesi da tale richiesta, qualunque Stato membro o l’Efsa possano sollevare obiezioni debitamente motivate sulla sicurezza dell’alimento e che, di conseguenza, la Commissione instauri un apposito procedimento. Dunque, uno Stato dell’UE che voglia avanzare motivi di rischio sulla sicurezza di un “novel food” deve seguire l’iter previsto, e non può limitarsi a proibirlo. Infine, e soprattutto, il principio di precauzione serve a vietare la commercializzazione di un prodotto, ma quella dei prodotti a base di carne in vitro al momento è comunque vietata in base alle citate normative UE, come spiegato. Pertanto, il richiamo a quel principio oggi non ha alcun senso, e tanto meno potrebbe averne pro futuro: l’autorizzazione eventualmente concessa dall’UE precluderebbe in automatico che un Paese possa avvalersene per blindare il proprio mercato.

Quindi, la menzione del principio di precauzione nel decreto del governo è solo fumo negli occhi.

Le conseguenze della nuova norma

Le associazioni agricole e zootecniche hanno accolto con favore il decreto del governo. Ma di fatto non ne saranno beneficiate: al momento, esse non possono temere la concorrenza di prodotti sintetici rispetto a quelli tradizionali, dato che i primi non sono ancora autorizzati, quindi nemmeno immessi sul mercato; né potrebbero evitarla in futuro, poiché al governo non sarebbe consentito vietare la commercializzazione di carne in vitro consentita dall’UE, non potendo ostacolare la libertà di circolazione delle merci né ricorrere al principio di precauzione.

Quando i prodotti in questione fossero autorizzati dalla Commissione europea, e pertanto divenisse inevitabile permetterne importazione e vendita, l’Italia potrebbe solo continuare a proibirne la produzione sul territorio nazionale, come pure sancito nel decreto. Ciò si tradurrebbe in un’unica conseguenza: le imprese italiane non investiranno in un settore su cui il governo ha posto un veto di produzione, mentre non può precludere la commercializzazione di alimenti, oggetto della medesima produzione, provenienti da altri Paesi. Dunque, non essendo possibile vietare in Italia l’importazione di carne sintetica creata altrove, l’unico effetto della decisione sarebbe quello di penalizzare le aziende italiane, che resterebbero al palo rispetto a quelle straniere. Con buona pace «delle Imprese e del Made in Italy» cui l’attuale governo ha intitolato un ministero. Non esattamente un buon risultato.

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