Referendum sul lavoro: un po’ di chiarezza

Prendiamo dal sito www.pietroichino.it una scheda dettagliata sui quattro quesiti sul lavoro che saranno votati l’8 e 9 giugno. Pietro Ichino è professore emerito di diritto del lavoro all’Università  degli studi di Milano. Basta leggere per capire che i quesiti referendari toccano normative complesse la cui comprensione non è alla portata di tutti i cittadini la maggior parte dei quali sarà così indotta a fidarsi delle spiegazioni date dai politici o sindacalisti o opinionisti di riferimento. Questo modo di chiamare al voto gli elettori ha fatto il suo tempo.

Scheda tecnica sul contenuto dei quattro quesiti in materia di lavoro

  1. Disciplina dei licenziamenti per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 (d.lgs. n. 23/2015)

Il quesito referendario è se vogliamo o no abrogare, tra gli otto decreti attuativi del Jobs Act, quello che disciplina la materia dei licenziamenti per i rapporti di lavoro costituiti dal 7 marzo 2015 in poi.

Per i rapporti di lavoro costituiti prima si applica la Legge Fornero (l. n. 98/2012); se nel referendum prevalesse il “SÌ”, la legge Fornero tornerebbe ad applicarsi a tutti i rapporti di lavoro, sia precedenti sia successivi al 7 marzo 2015. Per i rapporti costituiti prima di quella data, dunque, non cambierebbe nulla. Per quelli costituiti da quella data in poi, le differenze più rilevanti sarebbero le seguenti:

– nel caso di licenziamento intimato per un motivo ritenuto dal giudice insufficiente, si tornerebbe a un indennizzo di entità compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità (il d.lgs. n. 23/2015 prevede invece un indennizzo tra un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità); nel complesso non sarebbe un miglioramento per i lavoratori interessati, semmai forse un peggioramento;

– nel caso di licenziamento collettivo, nel quale il datore di lavoro abbia applicato criteri di scelta che il giudice disapprova, il lavoratore interessato sarebbe reintegrato nel posto di lavoro (il d.lgs. n. 23/2015 prevede invece anche in questo caso un indennizzo fino a un massimo di 36 mensilità, che può essere una protezione persino più appetibile rispetto alla reintegrazione nell’impresa in crisi).

Sia in riferimento al licenziamento individuale, sia in riferimento a quello collettivo, io ritengo più appropriata la nuova disciplina contenuta nel d.lgs. n. 23/2015, perché mantiene attivo il processo di armonizzazione progressiva dell’ordinamento italiano rispetto a quello degli altri ordinamenti dei Paesi membri della UE: ogni anno che passa il numero di rapporti coperti dalla legge Fornero (a oggi circa un quinto del totale)  si riduce, fino a sparire, mentre aumenta quello dei rapporti coperti dal Jobs Act, che riduce (di poco) l’area della reintegrazione, ma dà una protezione indennitaria complessivamente più robusta.

N.B. L’armonizzazione del nostro ordinamento del lavoro rispetto al resto della UE è molto importante per rendere l’Italia più attrattiva per gli investimenti esteri, che sono indispensabili per aumentare la produttività media del lavoro degli italiani, quindi i livelli retributivi, e per rafforzare il potere contrattuale delle persone nel mercato del lavoro (l’Italia oggi è tra i Paesi dell’UE meno capaci di attrarre investimenti stranieri). Per questo motivo – a mio avviso – la scelta migliore in questo referendum è il “NO” o il rifiuto della scheda elettorale.

  1. Disciplina dei licenziamenti per i dipendenti delle imprese minori (l. n. 108/1990)

Il quesito referendario è se vogliamo o no modificare la norma contenuta nella legge n. 108/1990 che prevede, nel caso di licenziamento di dipendente di impresa con meno di 16 dipendenti ritenuto dal giudice non sufficientemente motivato, un indennizzo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione. Se nel referendum prevalesse il “SÌ”, verrebbe soppresso il limite massimo di 6 mensilità: il giudice potrebbe dunque condannare l’impresa a un indennizzo persino superiore al limite vigente per le imprese maggiori.

Certo, la disciplina vigente del licenziamento nelle imprese di minime dimensioni andrebbe corretta – come recentemente sottolineato anche dalla Corte costituzionale – nel senso di modulare il limite massimo dell’indennizzo anche in relazione alle dimensioni del bilancio dell’impresa (dimensioni che possono non corrispondere al numero dei dipendenti). Ma il “colpo d’accetta” del referendum porterebbe a una correzione del tutto irragionevole: verremmo infatti ad avere la possibilità di condanna delle imprese più piccole a indennità persino superiori – senza alcun limite! – rispetto al limite massimo vigente per i licenziamenti nelle imprese maggiori (24 mensilità dove si applica la Legge Fornero del 2012, 36 mensilità dove si applica il d.lgs. n. 23/2015: v. sopra).

Per questo motivo – a mio avviso – la scelta migliore anche in questo referendum è il “NO” o il rifiuto della scheda elettorale.

  1. Disciplina dei contratti a termine (d.lgs. n. 81/2015)

Il quesito referendario è se vogliamo o no modificare la disciplina dei contratti a termine contenuta nel d.lgs. n. 81/2015 (un altro dei decreti legislativi attuativi del Jobs Act), nel senso di imporre l’obbligo per il datore di lavoro di indicare nel contratto il motivo (“causale”) di apposizione del termine anche per la prima assunzione, quando il contratto ha durata pari o inferiore a un anno. Il mio orientamento, su questo punto, è negativo perché:

– per un verso, la scelta compiuta con il Jobs Act è volta ad armonizzare la nostra disciplina della materia (non solo, come è ovvio, ai vincoli posti in proposito dal diritto europeo, ma anche) rispetto alla disciplina in vigore nella generalità degli altri Stati membri della UE: l’introduzione dell’obbligo di causale anche per i primi 12 mesi determinerebbe il ritorno a un disallineamento del nostro Paese;

– per altro verso, il contratto a termine è oggi, in tutta la UE, la forma normale di inserimento nel tessuto produttivo (anche perché la ridotta durata del periodo di prova consentito dai contratti collettivi non consente la necessaria sperimentazione delle capacità professionali della persona neo-assunta); imporre la “causale” anche per i primi 12 mesi di contratto a termine obbligherebbe le imprese a esplicitare il suddetto motivo, con conseguente  ritorno a un contenzioso giudiziale sovradimensionato dal quale trarrebbe beneficio solo il ceto forense;

– sul totale di rapporti di lavoro dipendente nel nostro Paese la percentuale dei contratti a termine si aggira intorno al 15 per cento, perfettamente in linea con la media UE; l’allarme lanciato in proposito dalla Cgil si fonda sulla confusione tra il dato “di stock” (15% appunto) e il dato “di flusso”, cioè la percentuale dei contratti a termine sui nuovi contratti che vengono via via stipulati (oltre la metà): il fatto che il dato di stock resti fermo a circa un sesto del totale è la prova che i contratti a termine vengono generalmente utilizzati come contratto di inserimento, ma nella maggior parte dei casi si trasformano poi in contratti a tempo indeterminato.

Per questi motivi – a mio avviso – la scelta migliore anche in questo referendum è il “NO” o il rifiuto della scheda elettorale.

  1. La corresponsabilità solidale di committente e appaltatore per la sicurezza del lavoro (d.lgs. n. 81/2008, art. 26, comma 4)

Il quesito referendario è se vogliamo o no che la regola generale per cui committente e appaltatore sono corresponsabili in solido per il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti dell’appaltatore e dei relativi contributi previdenziali (regola pacificamente in vigore senza eccezioni), nonché per il risarcimento dei danni da infortunio degli stessi dipendenti quando l’appalto si svolga dentro il perimetro dell’azienda del committente (regola posta dal comma 4 dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008), si estenda anche alla responsabilità per gli eventuali danni da infortunio nel caso in cui l’attività dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice presenti dei rischi specifici, diversi da quelli inerenti all’attività dell’impresa del committente. La norma che i promotori del referendum propongono di abrogare è dunque quella in virtù della quale la corresponsabilità solidale del committente non si applica “ai danni [che siano] conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.

Già oggi, dunque, in tutti i casi di appalto di opere o servizi che si collochino nell’ambito dell’attività svolta dall’impresa committente, quest’ultima è corresponsabile in solido con l’appaltatrice o subappaltatrice per gli infortuni accaduti ai dipendenti di quest’ultima. La norma che il referendum intende abrogare è solo quella che – molto ragionevolmente – prevede un’eccezione nel caso in cui l’attività dell’appaltatrice sia totalmente estranea a quella dell’impresa committente. Per chiarire il senso di questa norma, consideriamo il caso di un’impresa qualsiasi, anche di piccole dimensioni (15-20 dipendenti) di natura commerciale, che affidi in appalto un lavoro al proprio interno a un’impresa del settore edile, anche di grandi dimensioni, specializzata nella posa di impianti elettrici, o idraulici, oppure nella manutenzione di tetti e rivestimenti esterni. Nell’ipotesi in cui l’elettricista, o il muratore, o l’idraulico dipendente dell’impresa appaltatrice subisca un infortunio che possa considerarsi rientrante nel rischio specifico proprio dell’attività dell’impresa stessa (dunque estraneo al rischio proprio dell’attività della committente), oggi la norma oggetto del referendum esclude la responsabilità dell’impresa committente. Se la norma in questione venisse abrogata, l’impresa committente sarebbe corresponsabile del danno subito dal dipendente dell’appaltatrice, anche in conseguenza di un rischio sul quale la committente stessa non ha alcuna competenza.

A me sembra che, nel caso descritto, imporre alla committente una corresponsabilità solidale per un rischio estraneo alla sua attività normale sia del tutto irragionevole: sono, anzi, stupito che la Corte costituzionale abbia ammesso questa iniziativa referendaria, dal momento che il risultato dell’ipotetico prevalere del “sì” all’abrogazione presenterebbe evidenti profili di irragionevolezza.

Per questo motivo – a mio avviso – la scelta migliore anche in questo referendum è il “NO” o il rifiuto della scheda elettorale.

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