Riflessioni sul referendum costituzionale
Mettiamo subito una cosa in chiaro: il quesito referendario ha giocato un ruolo marginale nella dinamica del voto e figura agli ultimi posti nell’elenco dei fattori che ne hanno determinato il risultato.
Due mi sembrano i fattori principali che hanno predisposto il successo travolgente del no.
Il primo è quello che potremmo considerare come la matrice di ciò che è successo ai seggi: un’Italia infelice. Il paese vive da decenni un processo di declino, cui nel 2008 si è aggiunta la crisi prima finanziaria e poi economica che ha investito l’economia globale.
I ceti che un tempo costituivano il nerbo economico e politico del paese si sono impoveriti e hanno sperimentato una progressiva perdita di ruolo, a partire dal mondo del lavoro. Il presente si è fatto grigio, il futuro si è fatto fosco e, soprattutto, incerto. I primi a risentirne sono stati i giovani, che si sono scontrati con un mondo del lavoro che non risponde alle loro aspettative sotto tutti i punti di vista, dalla qualità degli impieghi offerti, all’entità, spesso risibile, delle remunerazioni, alle prospettive di carriera. Nel sud del paese, probabilmente, questi problemi sono stati aggravati da inerzie e arretratezze secolari. L’impatto delle grandi ondate migratorie ha fatto il resto. Il clima sociale si è fatto pesante e si è rafforzata l’atavica tendenza a chiedere a chi comanda, talora a pretendere, la soluzione dei propri problemi.
Due aspetti rendono la percezione di questo stato di cose ancora più pericolosa. Da un lato, il fatto che la politica non ha registrato in tutta la sua gravità lo stato di declino e non l’ha quindi portato alla coscienza degli interessati, inducendoli a credere che si trattasse di difficoltà transitorie. Che i problemi dell’Italia sono profondi e vengono da lontano sono in pochi a percepirlo con la dovuta chiarezza. Ancora meno percepito, dall’altro lato, è il fatto che la soluzione dei problemi in cui versa l’Italia, da quelli economici, a quelli politici e istituzionali, a quelli culturali, richiede tempi lunghi e una visione prospettica che nessuno in questo momento mostra di avere.
Il secondo ha a che vedere con la figura dell’uomo – Matteo Renzi – che, seppur in maniera confusa, discontinua e anch’essa priva di una visione, questi problemi ha cominciato ad affrontarli. L’inevitabile personalizzazione, in tempi di partiti evanescenti, che inizialmente ha suscitato la sensazione di avere finalmente trovato una guida capace di affrontare la crisi, si è a poco a poco rovesciata in una demonizzazione, alimentata anche dal fatto che alcuni obiettivi basilari, come la crescita economica, l’occupazione, che il premier ha maggiormente enfatizzato, non sono alla portata di nessuno governo attuale e futuro che si trovi a operare nelle condizioni di un paese come l’Italia.
I governi, in generale, possono fare poco, al di là delle narrazioni, e quel poco richiede tempo e mosse azzeccate. Ci vogliono equilibrio e pazienza, due ingredienti che non erano a disposizione né del premier né degli elettori. I cittadini, gli elettori, aspettavano, pretendevano il miracolo e il miracolo non è arrivato, semplicemente perché non poteva arrivare. Quel poco che è arrivato, perché qualcosa è arrivato, era ben lontano dalla dimensione del miracolo atteso.
In un regime politico come quello attuale, in cui non ci sono più i partiti a dare continuità e prospettiva all’azione di governo, i premier-star diventano usa e getta. Il tempo di metterli alla prova e poi, se non funzionano, come è molto probabile che avvenga, si buttano. Questo è il loop mortale che imprigiona le nostre democrazie. Non aiuta il fatto che ci sia una popolazione infelice e quindi arrabbiata, ma anche e soprattutto confusa, disorientata, che si muove sempre più sulla base degli umori acclamando presunti salvatori della patria che nel giro di poco tempo diventano nemici da abbattere.
Naturalmente, è un quadro approssimativo e disegnato con tratti molto grossolani, ma ritengo che aiuti a porre nella giusta prospettiva quello che è successo domenica scorsa. Se il contesto politico non offre prospettive da perseguire e metodi o pratiche da adottare, che consentano ai cittadini di dividersi e di dibattere “politicamente”, ci può essere solo una forte pulsione a identificarsi nel no, che ha l’enorme vantaggio di accogliere tutte le motivazioni possibili, senza, apparentemente, addossare nessuna responsabilità. Non è un caso che in molti abbiano votato no a prescindere, per dare un segnale, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze e, ancor meno, per le soluzioni da ricercare il giorno dopo la sfogo.
Questo è il punto a cui siamo. La vita non si ferma, tanto meno quella politica e, dunque, qualcosa succederà, qualcosa si farà. Compariranno nuovi leader o, peggio, ricompariranno quelli vecchi. Ma, sempre, senza aver prima fatto un bagno di verità collettivo in cui tutti, politici e cittadini, si dicono come stanno davvero le cose; e senza aver fatto lo sforzo di costruire una visione, in cui i cittadini possano riconoscersi e possano tornare a scegliere con la testa, lasciando la pancia ad altre, pur nobili, funzioni.
Un grande psicologo ed economista, Daniel Kahneman, ci ha insegnato che la “pancia” è un impulso primordiale che ci aiuta a decidere velocemente in situazioni di pericolo, in cui ne va della sopravvivenza. È con la “pancia” che l’uomo primitivo ha affrontato le prime fasi dell’evoluzione. Poi la vita si è fatta più complessa, si sono formate quelle aggregazioni sempre più complesse che sono le società moderne e l’uomo si è progressivamente attrezzato con una “testa” sempre più raffinata, che prende decisioni ponderate, che richiedono tempo. Forse oggi abbiamo bisogno di tutt’e due queste capacità, ma se ci fermiamo alla “pancia” non andiamo da nessuna parte e le decisioni che contano, alla fine, le prenderanno quelli che usano la “testa”.
Lapo Berti
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