Roma: il problema del blocco sociale

La lotta per il cambiamento a Roma, proprio perché opera quanto mai ardua e complessa non può prescindere da un postulato: il rapporto di forze fra gli interessi che si vogliono promuovere e difendere, il bene pubblico e comune, e gli interessi che vi si oppongono. Che non sono solo quelli di quattro speculatori e malversatori per quanto estesi ed invasivi, ma di un sistema di potere articolato con una sua base di massa fatta di piccole e grandi corporazioni che attorno a quegli interessi si aggregano o vi convergono.

giunta MarinoÈ giusto dire che per condurre questa battaglia non bastano un sindaco e i suoi assessori, ma bisogna che intorno a loro ci siano persone per bene e, ancor più, persone che conoscono i pericoli e gli umori di una città complessa e piena di insidie. Rutelli esprime un concetto simile quando afferma la necessità non di un uomo solo al comando, ma di cento persone da mettere, se ho ben capito, nei gangli dell’articolato potere romano per smuovere e far muovere la macchina del governo della città nella direzione voluta. A me, che ho una certa età e certe memorie, è tornato in mente il postulato di Nenni durante il primo centrosinistra degli anni ’60 del secolo scorso: per cambiare il Paese, secondo il grande leader socialista, era decisivo entrare nella “stanza dei bottoni”, ovvero del governo e dei ministeri. Il che era vero, ma non esaustivo, perché se poi, fuori da quella stanza, non hai il sostegno attivo e partecipe non di qualche decina o centinaia di persone, ma quello popolare, incarnato in un blocco sociale e di interessi che ti sorreggono, magari anche criticamente e dialetticamente, ma che comunque fanno la tua stessa battaglia nel corpo sociale, non puoi farcela.

errori di MarinoInsomma Roma non si cambia se non si ricostruisce un tale blocco sociale popolare con una sua adeguata rappresentanza politica. Le buone intenzioni di Marino si sono infrante su questa mancanza. Il PD, bisognava saperlo, da tempo stava dall’”altra parte”. Bastava vedere come aveva fiaccamente e fintamente condotto la battaglia di opposizione alle giunte Alemanno. Poi, “Mafia capitale” ha scoperchiato il perché.

La giunta Marino non va a casa perché ha alzato il livello della competizione e ridotto quello dell’Intermediazione, perché ciò era del tutto doveroso e irrinunciabile. Va a casa perché a sostegno di quell’alzata, al netto degli errori che pure ha commesso, non solo non si è saldato un forte consenso popolare, bensì, al contrario, si è saldato nella città un blocco di opinione che ha messo insieme il cittadino comune vessato dal malfunzionamento quotidiano di Roma con gli interessi dei potentati che venivano colpiti o anche soltanto minacciati.

Non è questa, nella storia della sinistra, una novità, né una sorpresa. La sorpresa è la coazione a ripetere gli stessi errori. Ad accelerare questa saldatura hanno contribuito potentemente le impoliticità (chiamiamole così per carità di Patria) di Marino che a me, in tutta questa vicenda, più che un Lohengrin o anche soltanto un Don Chisciotte è apparso come Alice nel paese delle meraviglie.

cambiamento a RomaSe dunque si vuole ripartire per il cambiamento civile e progressista di Roma occorre ripartire da questa consapevolezza, ovvero dalla necessità imprescindibile di creare un rapporto di forze favorevole, una congruità fra il fine e i mezzi. E questa è una lezione che chi è intenzionato a non rimettere questa città nelle mani dei soliti noti, dovrebbe rapidamente introiettare, mettendosi alacremente all’opera con spirito unitario perché la questione non si risolve con una buona candidatura alle prossime elezioni, che pure sarà importante trovare, per quanto illuminata essa possa essere.

Se Marino è intenzionato a dare il suo contributo in questa direzione, invece di dimettersi poteva (e può ancora) riportare nell’assemblea capitolina i termini della crisi e del contendere. Perché è pur sempre meglio cadere su uno scontro politico piuttosto che su uno scontrino.

Aldo Pirone

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