Taglio parlamentari: sì o no poco cambia

Pubblichiamo un articolo di Paolo Balduzzi tratto da www.lavoce.info

Sintesi: Il referendum sulla riforma costituzionale accende grandi discussioni. Ma la qualità della democrazia dipende soprattutto dai meccanismi di controllo e disciplina degli eletti. Qualsiasi sia il risultato, non cambierà molto per il futuro del nostro paese.

I contenuti della riforma costituzionale

Il 20 e 21 settembre si terrà il quarto referendum costituzionale della storia repubblicana, per confermare o meno il taglio di circa 350 parlamentari tra Camera e Senato. Solo il primo di questi referendum, quello che nel 2001 cambiò radicalmente, e non senza criticità, i rapporti tra stato, regioni ed enti locali, ottenne l’approvazione necessaria alla sua promulgazione. I due successivi, quello del 2006 e quello del 2016, sono stati bocciati dal corpo elettorale. I sondaggi danno come molto probabile l’approvazione della riforma, ma il fronte del “no” sta piano piano guadagnando terreno. Si tratta davvero di una scelta cruciale per il nostro paese? Molto francamente, sembra proprio di no.

La riforma costituzionale, approvata definitivamente dalla Camera l’8 ottobre 2019 e poi pubblicata in Gazzetta ufficiale il 12 ottobre 2020, modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, riducendo la dimensione delle due camere: la Camera dei deputati passerà da 630 a 400 membri (nella circoscrizione estero gli eletti saranno 8, contro i 12 di oggi), mentre il Senato scenderà da 315 a 200 membri (il numero di eletti nella circoscrizione estero passerà da 6 a 4). Il numero minimo di senatori per regione o provincia autonoma diminuirà da 7 a 3. Infine, il numero di senatori a vita nominati per meriti speciali sarà fissato a 5 come numero massimo.

La legge di riforma costituzionale è stata sottoposta a referendum, sulla base dell’articolo 138 della Costituzione, su richiesta di poco più di un quinto dei membri del Senato. Il referendum confermativo, che non prevede un quorum per essere valido, avrebbe dovuto tenersi lo scorso 29 marzo, ma è stato rinviato a causa dell’emergenza Covid-19. La riforma, se confermata, sarà attiva dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere, successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale e, in ogni caso, non prima che siano trascorsi sessanta giorni dalla data di entrata in vigore.

Gli effetti del “sì” e quelli del “no”

Cosa succederà nei due possibili scenari? La risposta più semplice, apparentemente, si ha con la vittoria del “no”: dal punto di vista istituzionale, infatti, si confermerebbe lo status quo. Dal punto di vista politico, invece, le cose sarebbero meno semplici. Innanzitutto, potrebbero esserci ripercussioni sulla tenuta del governo, anche se il Presidente del Consiglio, sul tema, non si è mai particolarmente esposto e, soprattutto, ai membri della maggioranza oggi conviene davvero poco rischiare nuove elezioni. Inoltre, si confermerebbe il trend per cui le riforme costituzionali vengono bocciate dalla popolazione. Si tratterebbe di un ulteriore grosso macigno sulla possibilità che altre riforme, magari più utili, vengano perlomeno tentate in futuro.

Molto più interessante è tuttavia riflettere su cosa accadrebbe nel caso di vittoria del “sì”, se non altro perché è lo scenario – sondaggi alla mano – al momento più probabile. Partiamo dai benefici, anche se la lista non sembra essere lunga. Il primo è un taglio ai costi della politica di difficile quantificazione, ma stimata dai proponenti della riforma in circa 100 milioni di euro annui. Difficile invece credere che aumenterà l’efficienza o migliorerà la qualità dei lavori delle camere: il bicameralismo non viene intaccato, i regolamenti neppure.

Per quanto riguarda gli aspetti negativi, la lista è ancora più corta: nessuno. Certo, diminuirà il rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, che se si considera la sola Camera ci posizionerebbe addirittura all’ultimo posto in tutta Europa. Senza dimenticare che quando la Costituzione entrò in vigore, nel 1948, la popolazione era inferiore a quella attuale. Tuttavia, in un contesto bicamerale perfetto a elezione diretta come quello italiano, bisognerebbe considerare la somma di deputati e senatori (che ci porterebbe più vicino alla media europea). Se poi si spazia oltre il confine europeo, si trovano esempi di democrazie antiche e ben funzionanti che hanno un rapporto tra eletti ed elettori ancora più basso (gli Stati Uniti su tutti). Insomma, l’argomento ha un certo valore, ma solo di principio. E forse è più utilizzabile a livello locale che nazionale: infatti, seppur alcuni correttivi garantiscano le regioni più piccole (la diminuzione del numero di senatori è nulla in Molise e Val d’Aosta e molto limitata in Trentino-Alto Adige), altre regioni come Umbria e Basilicata sperimenteranno un taglio di senatori di oltre il 50 per cento (da 7 a 3). Il taglio medio dei deputati invece è molto simile in tutte le circoscrizioni (circa il 37 per cento, tranne ancora una volta la Val d’Aosta, che mantiene il suo unico deputato).

Ma si può davvero affermare che la qualità della democrazia sarebbe inferiore riducendo il numero dei parlamentari? Forse che i comuni o le regioni funzionino peggio, o che i cittadini si sentano meno rappresentati, dopo la “cura dimagrante” dell’ultimo decennio sul numero di rappresentanti negli enti locali? La qualità della democrazia non dipende solo, se mai davvero ne dipende, dalla dimensione delle istituzioni, ma anche e soprattutto dai meccanismi di controllo e disciplina degli eletti. In sintesi, questa riforma costituzionale si può sostenere (o bocciare) a cuor leggero: non cambierà comunque molto per il futuro del nostro paese

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