Un po’ di storia e il caso palestinese

Confini ridisegnati e popoli in esodo: perché solo i palestinesi hanno rifiutato ciò che il mondo ha accettato?

Tra gli anni Quaranta e Sessanta del XX secolo, il mondo fu attraversato da uno sconvolgimento geopolitico di proporzioni epocali. La fine della Seconda guerra mondiale, la decolonizzazione e la Guerra Fredda portarono con sé ridefinizioni territoriali, esodi forzati, scambi di popolazione, nuovi Stati e nuove identità. In questo contesto globale, quasi ogni popolo coinvolto ha accettato la realtà – dolorosa, spesso imposta – del cambiamento. Con una grande eccezione: i palestinesi arabi.

Italia, Germania, Polonia: le cicatrici dell’Europa. Dopo il 1945, l’Italia perse Istria, Dalmazia, le isole del Dodecaneso e parte della Venezia Giulia. Centinaia di migliaia di italiani furono costretti a fuggire da quelle terre, diventando esuli. La Germania, responsabile dell’immane tragedia bellica, fu smembrata: perse Prussia Orientale, Slesia, Pomerania. Milioni di tedeschi furono espulsi da territori passati a Polonia e URSS.

La Polonia stessa fu “spostata” a ovest: perse vasti territori a est (ora Ucraina e Bielorussia) e ricevette in cambio terre tedesche. Nessuno parlò di “diritto al ritorno” per milioni di profughi. L’obiettivo era uno solo: stabilità.

India e Pakistan: un confine tracciato col sangue. Nel 1947, il subcontinente indiano fu diviso in due Stati: India e Pakistan. La separazione portò a uno degli esodi più drammatici del secolo: oltre 10 milioni di persone costrette a migrare, circa un milione di morti. Eppure, nonostante il trauma, i due Stati si affermarono. Le popolazioni, spesso a malincuore, riconobbero la nuova realtà e si dedicarono alla costruzione del futuro.

Israele e la Palestina: l’unica eccezione. Nello stesso 1947, l’ONU propose la spartizione del Mandato britannico in due Stati: uno ebraico, uno arabo. Gli ebrei accettarono, gli arabi no. Nel 1948, alla proclamazione dello Stato di Israele, seguì un’invasione da parte di cinque Stati arabi. La guerra portò alla fuga (spesso indotta anche da autorità arabe) di centinaia di migliaia di palestinesi. Mentre il mondo affrontava gli esodi come eventi dolorosi ma risolutivi, il mondo arabo decise di non assorbire i profughi palestinesi, mantenendoli in uno stato di precarietà come leva politica contro Israele.

Non solo: i circa 850.000 ebrei espulsi da paesi arabi tra il 1948 e il 1970 (Iraq, Egitto, Marocco, Yemen, ecc.) non furono oggetto di campagne internazionali. Nessun diritto al ritorno. Nessuna agenzia ONU dedicata esclusivamente a loro (l’UNRWA, l’agenzia per i rifugiati palestinesi, fu creata nel 1949 rimanendo separata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR). Gli ebrei furono assorbiti da Israele e da altri Paesi, come era prassi in quel periodo storico.

Una scelta identitaria, non geopolitica. A differenza delle altre popolazioni coinvolte nei traumi del dopoguerra, i palestinesi e il mondo arabo rifiutarono la logica del compromesso. Non vollero uno Stato accanto a Israele, ma al posto di Israele. Da allora, ogni proposta di pace basata sul principio “due popoli, due Stati” è stata rigettata o accettata solo in funzione tattica, come dimostrano i documenti di Hamas e le dichiarazioni di leader palestinesi.

La tragedia palestinese non è stata più dura, più ingiusta o più traumatica di quella vissuta da altri popoli del Novecento. La sua particolarità non è storica, ma politica e ideologica: è l’unico caso in cui l’identità nazionale si è fondata sul rifiuto dell’altro, non sulla costruzione di sé.

Finché questa eccezione verrà alimentata da governi, intellettuali e ONG che rifiutano di guardare alla storia nel suo insieme, non ci sarà pace, né per i palestinesi, né per gli israeliani.

Roberto Damico (da facebook)

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