Il caso Albanese ovvero l’ideologia della falsificazione

In nome della giustizia, della pace e della verità. Una breve risposta giuridica, storica e morale al rapporto ONU della relatrice Francesca Albanese.

Parlo come giurista, come donna di legge e come cittadina di un’umanità che ha imparato sulla propria pelle cosa significhi l’odio travestito da linguaggio giuridico. La Shoah e le sue lezioni, così come i crimini odierni commessi da regimi totalitari, ci obbligano a vigilare. Ho letto con profonda attenzione e senso di responsabilità il recente rapporto presentato da Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, dal titolo “From the Economy of Occupation to the Economy of Genocide”. Un documento che, per chi come me crede nella giustizia, nella pace tra i popoli e nella difesa del diritto internazionale, impone una riflessione seria, dolente e, mi sia concesso, ferma.

  1. La Storia stravolta: la delegittimazione di Israele come Stato.

Il rapporto “From the Economy of Occupation to the Economy of Genocide”, pubblicato da Francesca Albanese in qualità di relatrice speciale dell’ONU,  riscrive radicalmente la storia della nascita di Israele, reinterpretandola secondo uno schema ideologico che mira a minare la stessa legittimità dello Stato ebraico.

Secondo Albanese, il progetto sionista sarebbe stato fin dall’inizio un’“impresa coloniale aziendalizzata”, iniziata nel 1901 con l’acquisto di terre da parte del Jewish National Fund e culminata, attraverso una narrativa ininterrotta di occupazione e pulizia etnica, nella “Nakba” del 1948.

Ma qui la storia viene gravemente e colpevolmente distorta. L’acquisto di terreni da parte di organizzazioni ebraiche nei primi decenni del XX secolo fu legale, pacifico, e avvenne spesso da parte di latifondisti assenti. Gli USA, l’Australia, il Brasile, il Venezuela, non sono stati costruiti in modo così pacifico. Parlare di “colonialismo” nei termini usati da Albanese, senza alcun riferimento al contesto storico del mandato britannico, alla Shoah, all’esilio millenario del popolo ebraico, alle persecuzioni subite nei secoli, ai pogrom, alla Conferenza di Sanremo, alle espulsioni di centinaia di migliaia di  ebrei dai paesi arabi, alle risoluzioni ONU del 1947, è un’operazione ideologica che ignora il diritto e cancella la sofferenza.

Nel rapporto non si trova alcuna menzione del fatto che lo Stato di Israele nacque nel 1948 per decisione dell’ONU, in un territorio che già vedeva la presenza ebraica millenaria, con una proposta di spartizione accettata dagli ebrei e respinta da tutti gli Stati arabi. Il giorno dopo la proclamazione dello Stato, cinque eserciti arabi invasero il neonato Israele con l’intento dichiarato di cancellarlo. La guerra, dunque, non fu “scatenata da Israele”, come si lascia intendere, ma subita, e vinta con una determinazione che ha segnato la sua storia e identità.

Attribuire la “Nakba” a un progetto coloniale e non a una guerra voluta dagli arabi è un grave falso storico. Gli arabi che non si unirono alle truppe restarono in Israele con pieni diritti. Così come è un falso storico l’idea che Israele sia uno Stato “razzializzato” fondato sulla supremazia. Israele garantisce pari diritti ai suoi cittadini, di qualunque provenienza e religione siano. Ci sono giudici della Corte Suprema, primari, giornalisti, docenti arabi in Israele. Quella della Albanese è una narrazione tossica, che non solo mistifica i fatti, ma alimenta il pregiudizio, l’odio e la delegittimazione del diritto all’esistenza del popolo ebraico nella sua terra. Dieci milioni di persone potrebbero tranquillamente essere spazzate via, per la relatrice ONU.

Inoltre, Albanese descrive gli Accordi di Oslo del 1993 come un ulteriore strumento di “istituzionalizzazione dello sfruttamento”. Ma quegli accordi furono firmati da entrambe le parti, sotto la guida di Rabin e Arafat, e accettati dai rappresentanti palestinesi. Ridurli a una trappola coloniale è un insulto alla memoria di chi, da entrambe le parti, ha creduto nella pace — e in alcuni casi è morto per essa.

2) Assenza del 7 ottobre: una ferita negata.

Il documento non contiene alcuna menzione del terribile massacro del 7 ottobre 2023, compiuto da Hamas contro civili israeliani inermi, donne e bambini. Non è un dettaglio trascurabile. È una rimozione. Una rimozione colpevole. Mostruosa, nazista. Non si può parlare di presunti “crimini di Israele” prescindendo dal contesto che li avrebbe generati, né definire il conflitto in corso senza riconoscere la realtà di un attacco terroristico brutale, deliberato,  che ha fatto strage volontaria di innocenti, stuprati, bruciati, decapitati, portati in trofeo, e ha condotto al rapimento di donne, bambini, anziani, soldati, civili. Omettere questo significa costruire la narrazione su una base storicamente monca e moralmente fragile.

3) Un linguaggio ideologico che contraddice il mandato ONU

Il lessico impiegato da Albanese è militante, non giuridico: “settler-colonial apartheid”, “economia del genocidio”, “razzismo sistemico”, “Stati globali di minoranza”. Espressioni gravi, usate in assenza di confronto dialettico o contraddittorio, e spesso senza un adeguato fondamento nel diritto internazionale positivo. Un relatore ONU non è un attivista. È, o dovrebbe essere, garante di imparzialità, rigore giuridico, equilibrio analitico. Quando si abdica a questi principi, non si difende la giustizia: la si tradisce.

4) Pluralismo epistemico assente

Il rapporto cita esclusivamente fonti ostili a Israele, quasi tutte ONG o network ideologicamente allineati. Non c’è traccia di fonti israeliane, né di agenzie terze. Nessuna voce delle vittime del 7 ottobre. Nessuna parola per gli ostaggi. Nessuna indagine sul ruolo di Hamas nella gestione della Striscia di Gaza o sulle violazioni sistematiche dei diritti umani nei confronti della stessa popolazione palestinese.

In un contesto così complesso e doloroso, questa unilateralità non è solo sbilanciamento: è una forma di disumanizzazione selettiva.

5). Il Diritto Internazionale Umanitario ignorato, distorto o ridotto a strumento ideologico

Il rapporto Albanese pecca gravemente di parzialità anche sotto il profilo giuridico. Nella sua narrazione, il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) — che ha il compito di regolare la condotta delle parti in conflitto armato per limitare le sofferenze umane — viene piegato a una lettura ideologica e selettiva che compromette la sua funzione.

5.1) L’obbligo di distinzione e proporzionalità ignorato a senso unico.

Uno dei principi fondamentali del DIU, sancito dalle Convenzioni di Ginevra e dai Protocolli aggiuntivi, è il principio di distinzione tra obiettivi civili e obiettivi militari, insieme a quello di proporzionalità negli attacchi. Nel suo rapporto, la relatrice omette sistematicamente qualsiasi analisi della condotta di Hamas, un attore armato che fa scempio di  queste regole attraverso:

– L’uso sistematico di scudi umani se non il deliberato, proclamato e intenzionale sacrificio umano;

– L’installazione di centri di comando e arsenali in ospedali, scuole, moschee e aree residenziali;

L’assenza di uniforme e la commistione deliberata fra combattenti e civili.

Il DIU prevede chiaramente che la parte che utilizza scudi umani si renda corresponsabile delle perdite civili che derivano da attacchi diretti a obiettivi militari legittimi. Tuttavia, il rapporto non affronta mai la responsabilità di Hamas nel porre in pericolo la propria popolazione, violando il principio di precauzione. Nessuna menzione al fatto che Hamas non abbia mai permesso ai civili di Gaza di utilizzare i numerosissimi rifugi sotterranei per trovare rifugio.

5.2) L’autodifesa e la protezione della popolazione: un diritto cancellato.

Albanese non riconosce il diritto inalienabile di Israele alla legittima difesa, previsto dall’art. 51 della Carta ONU. L’intero rapporto si costruisce come se Israele non fosse stato aggredito, come se il 7 ottobre non fosse mai avvenuto.

Nessun accenno al fatto che il diritto internazionale riconosce agli Stati il diritto di proteggere la propria popolazione da attacchi armati, inclusi attacchi terroristici su larga scala. L’assenza di un quadro completo sulla responsabilità di Hamas come aggressore delegittima ogni analisi successiva sull’uso della forza, rendendo il rapporto giuridicamente monco.

5.3) La parola “genocidio” come arma politica.

Il termine “genocidio”, usato nel titolo del rapporto, è giuridicamente definito dalla Convenzione del 1948 sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Richiede l’intento specifico (dolus specialis) di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale o religioso.

Il rapporto Albanese non prova mai questo intento con elementi concreti, ma si basa su dichiarazioni decontestualizzate di esponenti israeliani (senza analisi giudiziarie, contesto o verifica); dati discutibili, a volte provenienti esclusivamente da fonti di Hamas o organizzazioni affiliate; omissione sistematica di ogni riferimento alla condotta degli attori palestinesi armati, come se non esistesse alcuna guerra in corso, ma solo un’unica parte responsabile.

Così facendo, il concetto di genocidio viene svuotato del suo significato giuridico e trasformato in una clava politica. Questo è un abuso del diritto internazionale che mina la sua credibilità, banalizza la memoria di genocidi storici (uno dei quali, il più grave, subito dal popolo ebraico) e rischia di rendere inefficace la sua applicazione reale nei contesti dove davvero si verifica.

5.4) Il metodo: selezione ideologica delle fonti

Il rapporto si fonda su fonti di parte, senza contraddittorio, senza metodologia trasparente e senza neppure l’apparenza di un’indagine bilanciata. È assente ogni considerazione sulle violazioni del diritto umanitario da parte di: Hamas e altri gruppi armati; l’Autorità Palestinese in Cisgiordania; gli Hezbollah nel nord.

Il DIU impone a chi produce un documento con valore giuridico o istituzionale l’obbligo di neutralità metodologica. La mancanza di fonti israeliane, di testimonianze delle vittime del 7 ottobre, o di analisi comparative con conflitti analoghi, evidenzia una costruzione viziata fin dall’origine.

6) Il diritto alla sicurezza dimenticato.

Israele, come ogni Stato, ha diritto alla sicurezza e all’autodifesa. Questo principio, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, non viene nemmeno menzionato. Al suo posto, troviamo un’unica linea narrativa: quella di un’entità coloniale aziendalizzata, impegnata in uno sterminio pianificato, senza storia, senza minacce, senza attacchi subiti.

Ma un documento che ignora la storia e le leggi dei popoli, diventa esso stesso una minaccia alla pace.

7). Effetti devastanti sul discorso pubblico e sulla convivenza

Presentare l’intera economia israeliana come “genocida” non solo disumanizza uno Stato intero, ma può alimentare odio, antisemitismo e giustificare la violenza. Dove non c’è distinzione tra governo e cittadinanza, tra esercito e bambini, tra ideologia e persone reali, il rischio è che ogni ebreo venga visto come nemico. Questo è intollerabile, per chiunque creda nei diritti umani universali. Per nessun popolo è mai stata fatta una generalizzazione del genere. Dopo l’attacco delle Torri Gemelle e gli attentati terroristici in Europa, i musulmani presenti sul suolo occidentale sono stati difesi, non omologati. Qui le vittime della Shoah e del 7 ottobre non solo vengono dimenticate, ma colpevolizzate.

In nome della pace vera, non ideologica. La mia speranza è che da parte delle istituzioni internazionali possa sorgere un linguaggio nuovo: neutrale, veritiero; non cieco, ma profetico; non strumentale, ma radicato nel riconoscimento reciproco.

In questo momento storico, Israele ha diritto di essere raccontata giustamente. Non isolata. Così come il popolo palestinese ha diritto alla libertà, alla dignità e a una vita senza oppressione né terrorismo.

Chi mente su Israele e dimentica i crimini di Hamas tradisce anche quella grande parte del popolo palestinese che vorrebbe, si spera, vivere in pace e non essere soggetta a un regime terroristico, misogino, omofobo, dittatoriale, sovvenzionato dal regime iraniano (altro campione di mostruosità e persecuzione, vera fonte di tutta l’instabilità mediorientale).

Difendere Israele non significa negare i diritti dei palestinesi. Significa rinforzarli. Significa tenere alle vite di tutti. Significa affermare che ogni popolo ha diritto di vivere senza menzogne, senza terrorismo, senza essere usato come arma ideologica, senza guerra. La pace non si costruisce cancellando la storia ebraica, ma riconoscendo la verità nella sua interezza. È tempo che le Nazioni Unite tornino a essere davvero ciò che il loro nome promette: un patto fra umani, non una tribuna per la propaganda.

Alessandra Casula (da facebook)

(Foto di John Iglar da Pixabay)

1 commento
  1. Larimba dice:

    Ciccia e pappa dove sono finiti i territori attribuiti ai palestinesi nel 48 ? Puoi fare un rapporto ?

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