Radicalismo di sinistra e islamico: due facce della stessa medaglia
C’è una strana alleanza che attraversa il nostro tempo. Non la troverai nei trattati diplomatici o nei vertici ufficiali, ma nelle piazze, nelle università e nei social network: l’abbraccio tra il radicalismo di sinistra e quello islamico. Due mondi che, in apparenza, dovrebbero odiarsi – laicità contro teocrazia, femminismo contro patriarcato religioso – ma che si ritrovano uniti dallo stesso nemico: l’Occidente.
L’odio come collante ideologico. Da un lato, la sinistra radicale europea e americana, sopravvissuta al crollo del muro di Berlino e orfana del proletariato. Non avendo più una classe da liberare, ha deciso di sostituirla con una causa morale: l’“oppresso” del momento. Dall’altro, il radicalismo islamico che, dopo la fine del colonialismo, ha trasformato il risentimento politico in guerra santa.
Entrambi hanno costruito la propria identità sull’odio: verso Israele, verso gli Stati Uniti, verso chiunque rappresenti successo, libertà, ordine o modernità. È un’alleanza che non nasce dal rispetto reciproco, ma da un patto di convenienza: il nemico del mio nemico è il mio amico. Così il marxismo decostruzionista e il jihadismo teocratico si stringono la mano, nel nome dell’antimperialismo e della lotta all’“oppressore”.
Dal 1968 a Gaza: la lunga marcia del vittimismo. Il radicalismo di sinistra ha trovato negli anni ’60 la sua prima esplosione. In quelle piazze, i giovani che gridavano contro la NATO e il capitalismo si innamorarono dei movimenti di liberazione armata: dal Vietnam a Cuba, dall’OLP palestinese alle Brigate Rosse.
La retorica era semplice: ogni “rivoluzionario” che sparava contro l’Occidente era automaticamente un eroe. Quel virus culturale non è mai morto: si è solo adattato. Oggi lo si trova travestito da pacifismo, antisionismo, o “solidarietà con i popoli oppressi”. Sempre la stessa minestra, solo più patinata.
Quando Hamas spara razzi o decapita civili, la sinistra radicale non vede terrorismo, ma “resistenza”. Quando le donne iraniane vengono frustate per un velo mal messo, silenzio. Ma se Israele reagisce, scatta l’urlo globale: genocidio. Il metro morale non è la realtà, ma l’odio verso chi rappresenta l’Occidente libero.
La convergenza del rancore. Il radicale di sinistra e l’estremista islamico condividono un codice comune: la cultura del risentimento. Il primo odia la società che non lo riconosce come “illuminato”. Il secondo odia la libertà che gli ricorda la propria arretratezza. Entrambi si credono vittime, e nel nome di questa ferita costruiscono la giustificazione di ogni violenza. Non vogliono giustizia, vogliono vendetta. Non cercano equilibrio, cercano un colpevole. E quando trovano Israele, l’America o “l’uomo bianco” di turno, la partita è fatta. Il radicale occidentale mette la voce, il jihadista mette le bombe. Il primo scrive sui giornali, il secondo agisce sul campo. Due modalità diverse dello stesso fanatismo.
Università e ONG: le nuove moschee ideologiche. Oggi la loro alleanza non passa più solo per le piazze, ma per le cattedre e le organizzazioni internazionali. Nei campus americani e nelle università europee, il pensiero critico è stato sostituito dal dogma ideologico. Gli studenti vengono educati a odiare l’Occidente, a disprezzare Israele e a venerare qualsiasi “minoranza resistente”, anche se omicida. È la nuova religione laica del XXI secolo: la teologia dell’offesa permanente. Allo stesso modo, molte ONG si sono trasformate in avamposti di militanza ideologica. Non fanno più umanitarismo, ma propaganda. Parlano di diritti umani, ma selezionano le vittime. E quando i jihadisti usano gli ospedali come basi militari o le scuole come arsenali, non vedono. Meglio non turbare la narrazione.
La contraddizione che non osa dire il suo nome. Il paradosso è evidente: la sinistra radicale difende chi la ucciderebbe per prima. Difende regimi che negano i diritti delle donne, che lapidano gli omosessuali, che perseguitano i dissidenti. Ma basta che quei regimi si dichiarino “contro l’Occidente” per diventare automaticamente “compagni di lotta”. È una forma di autolesionismo ideologico, un suicidio culturale lento e collettivo. Non a caso, nei cortei pro-Palestina sfilano insieme femministe e fondamentalisti, pacifisti e apologeti di Hamas. Una scena che basterebbe da sola a spiegare il collasso morale dell’Occidente.
Dalla rivoluzione al caos. Il radicalismo di sinistra e quello islamico hanno una missione comune: distruggere l’ordine esistente. Non propongono un modello migliore, solo un nemico da abbattere. Entrambi si nutrono del caos perché nel caos trovano senso. E quando il caos arriva, nessuno dei due sa governarlo: l’uno costruisce gulag, l’altro califfati. Dietro le bandiere arcobaleno e le kefiah c’è la stessa nostalgia di potere assoluto, di purezza morale, di verità incontestabile. E quando la libertà diventa un problema da eliminare, il risultato è sempre lo stesso: totalitarismo.
Conclusione: il nuovo volto dell’intolleranza
Oggi vediamo il radicalismo di sinistra e quello islamico abbracciarsi sotto la maschera della giustizia sociale e dell’antimperialismo. Ma dietro c’è il vecchio sogno del dominio: controllare la parola, punire il dissenso, riscrivere la storia. Non è solidarietà con gli oppressi, è odio verso la libertà. Due ideologie che dicono di voler liberare il mondo, ma in realtà vogliono solo cambiarne il padrone. Il comunismo sognava l’uomo nuovo, l’islamismo il credente perfetto. Entrambi hanno prodotto solo vittime. La differenza è che oggi combattono insieme. E l’Occidente, troppo occupato a chiedersi se offendono qualcuno, non si accorge che la vera offesa è smettere di difendere sé stesso.
Luigi Giliberti (da facebook)

	
	
	
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