Dialogo sulla riforma costituzionale
Pubblichiamo brani di un dialogo tra Ferruccio De Bortoli (F.D.B.) e Pietro Ichino (P.I.) sulla riforma costituzionale
F.D.B. Io credo che dovremmo impegnarci tutti, favorevoli o contrari, per far sì che il dibattito sulle riforme costituzionali, da qui a ottobre, non degeneri. Che cosa intendo dire? Chi vota no non è un oscurantista che condanna il Paese ad essere irriformabile. Né un guastatore antipatriottico. E chi vota sì esprime una posizione meditata frutto di un ragionamento sul merito, risultato di una rispettabilissima battaglia delle idee.
P.I. All’inizio di questa legislatura, nella primavera del 2013, ho vissuto con angoscia la situazione di paralisi delle istituzioni che si era determinata, con il Parlamento incapace di esprimere il Governo e persino di eleggere il Presidente della Repubblica, con la sentenza della Corte costituzionale che ci consegnava una legge elettorale perfettamente proporzionale tale da produrre all’infinito il ripetersi di quella situazione di stallo, con i rapporti tra Stato e Regioni in una situazione letteralmente caotica, con l’economia del Paese da anni affamata di riforme urgenti e di nuovo sull’orlo di un tracollo dagli esiti catastrofici.
F.D.B. Quello che è accaduto nel 2013, lo stallo parlamentare, l’impossibilità di formare un governo ed eleggere un nuovo capo dello Stato, è anche, e soprattutto, frutto dell’incapacità dei partiti di parlare al Paese, del loro fallimento elettorale. Non colpa delle norme, comunque inadeguate.
P.I. Quanto ai contenuti specifici della riforma, ipotizzo che tu concordi sulla valutazione positiva di queste scelte: 1. quella fondamentale di togliere al Senato la funzione di esprimere la fiducia al Governo, affidandogli invece la funzione di controllo dell’attuazione delle leggi e del funzionamento delle amministrazioni (analisi degli effetti delle politiche pubbliche) e le funzioni legislative in materia di rapporti con l’UE e attuazione delle politiche comunitarie, leggi concernenti le autonomie locali e coordinamento tra Stato e Regioni, partecipazione alla funzione legislativa soltanto su alcune materie ben delimitate o in alcune occasioni particolari; 2. quella di ridurre gli eccessi del potere legislativo e amministrativo attribuito alle Regioni dalla riforma del 2001, eliminando le materie soggette a competenza legislativa congiunta statale e regionale; 3. quella di alleggerire le istituzioni, riducendo il numero dei senatori, sopprimendo l’inutile CNEL e completando l’opera di soppressione delle Province come sedi di organi collegiali elettivi. Probabilmente, certo, ciascuna di queste tre cose avrebbe potuto essere fatta meglio; ma non pensi che, in riferimento a ciascuno di questi tre “capitoli” della riforma, nell’alternativa fra confermarlo riservandosi di perfezionarlo nei prossimi anni con le correzioni che l’esperienza consiglierà, e azzerarlo lasciando le cose come stanno oggi, la prima opzione sia tutto sommato migliore della seconda? In relazione a quale o quali di questi tre punti tu riterresti meglio azzerare la scelta compiuta e rimanere nella situazione attuale?
F.D.B. Su alcuni contenuti della riforma Boschi, soprattutto il fatto che il nuovo Senato non esprima più la fiducia al Governo, sono del tutto d’accordo con te. Il ritorno di molti, ma non del tutto specificati, poteri regionali allo Stato è sacrosanto, ma non dimenticarti, caro Pietro, che la sciagurata riforma costituzionale del titolo V fu fatta, all’inizio del secolo, dal partito di cui tu fai parte, nel disperato tentativo di impedire la vittoria del centrodestra, che poi regolarmente avvenne. Il gigantesco contenzioso tra Stato e Regioni, che ha ingolfato e paralizzato la Corte Costituzionale, è anche frutto di quella scelta.
P.I La riforma costituzionale su cui voteremo in autunno si limita a rendere il Governo un po’ più stabile (col farne dipendere la sopravvivenza dalla fiducia della sola Camera dei Deputati), un po’ più capace di attuare i programmi enunciati (attribuendo una corsia preferenziale in Parlamento ai suoi disegni di legge, anche al fine di limitare il numero dei decreti-legge, e limitando a materie o situazioni particolari il caso in cui una stessa legge deve essere approvata pure dal Senato), quindi a renderlo un po’ più responsabile dell’eventuale non attuazione. La riforma non riduce o comprime le funzioni di alcuno degli strumenti di controllo fondamentali: né quelle del Presidente della Repubblica, né quelle della Corte costituzionale, né quelle del potere giudiziario, né quelle del referendum popolare abrogativo. Viceversa, aumentando dal 50 attuale al 60 per cento dei parlamentari il quorum di ultima istanza necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, la riforma rende indispensabile un accordo tra la maggioranza e almeno una parte dell’opposizione per l’elezione stessa anche dopo dieci o venti scrutini a vuoto; e riducendo notevolmente il quorum dei votanti necessario per la validità del referendum abrogativo, rende più effettivo questo elemento di controllo popolare sul potere legislativo. Così stando le cose, dove vedi – se lo vedi – un rischio di derive autoritarie?
F.D.B. Io non temo una deriva autoritaria. Constato soltanto atteggiamenti autoritari, volgari, di disprezzo delle istituzioni, che non mi piacciono. Per quanto riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica non ti sfuggirà che dal settimo scrutinio è sufficiente “la maggioranza dei tre quinti dei votanti” quindi meno della maggioranza assoluta dell’assemblea.
P.I. Sulla questione particolare dell’elezione dei membri del nuovo Senato, osservo, per un verso, che in nessun Paese europeo i membri della Camera alta – là dove essa esiste – sono eletti direttamente a suffragio universale; per altro verso, il sistema delineato dalla riforma costituzionale implica addirittura una doppia elezione dei senatori: quella a suffragio universale a Sindaco di una grande città, o a consigliere regionale, poi quella di seconda istanza da parte del corpo elettorale costituito dagli eletti nei consigli delle autonomie locali. Il modello è simile a quello francese.
F.D.B. Accolgo la tua tesi sull’elettività del Senato, ma credo che l’omologo francese e il Bundesrat funzionino diversamente. Soprattutto la seconda camera tedesca. Ti domando se il nuovo Senato non finisca per essere una retrovia degli enti locali nella quale confluiranno, non più eletti direttamente, le seconde file delle Regioni che già non brillano per la qualità dei loro esponenti. Temo che il nuovo Senato non brillerà per competenza, rifletterà l’immagine, pessima, degli enti locali di cui sarà modesta espressione. Il bicameralismo andava superato. Ma perché allora non avere una Camera sola?
L’Italicum trasformerà ancora di più la Camera in un’assemblea di nominati dai capipartito, grazie ai capilista bloccati e alla candidature plurime. Il Senato non sarà più elettivo. Si rafforzano, com’è giusto, i poteri dell’esecutivo. La forma di governo surrettiziamente cambia. I contrappesi, referendum propositivo (peraltro solo promesso) e legge d’iniziativa popolare, appaiono modesti. Quasi posticci. Mi domando se, al termine del processo riformatore, saremo ancora una democrazia rappresentativa. Il problema più serio della nostra fragile democrazia è convincere i votanti, sempre di meno, che la loro opinione conta, che sono ancora cittadini. P.I. Non concordo con queste tue critiche al risultato della riforma istituzionale e di quella elettorale:– sulla “Camera dei nominati”: il sistema elettorale più diffuso nel mondo è quello basato sul collegio uninominale, cioè quello nel quale più di ogni altro il candidato è “nominato” dal partito, e gli elettori possono solo votare quello o votare il candidato di un altro partito, prendere o lasciare: per questo aspetto non vedo una differenza rilevante rispetto all’elezione del capolista nel piccolo collegio previsto dall’Italicum per la scelta dei deputati; a me, francamente, preoccupa di più il ritorno alle preferenze per i secondi eletti nello stesso collegio (compromesso che il PD ha dovuto subire);
– sul “Senato non eletto”: i senatori saranno eletti eccome! Ho osservato sopra che i passaggi elettorali per loro saranno addirittura due, dovendo essi passare sia per l’elezione al consiglio regionale o al seggio di sindaco di grande città, poi per l’elezione da parte del grande “collegio degli eletti” delle autonomie locali, come in Francia;
– sui contrappesi al potere del Governo: i contrappesi non saranno costituiti soltanto dal referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, ma anche e in primo luogo dalla Corte costituzionale, i cui poteri e competenze sono aumentati dalla riforma, e dal Presidente della Repubblica .
Quanto, infine, alla percezione da parte degli italiani del voto politico come inutile, a me sembra che questa sfiducia sia venuta rafforzandosi proprio in conseguenza dell’inconcludenza della politica, dell’impossibilità strutturale per quasi tutti gli ultimi 70 anni di dar vita a un Governo che enunciasse un programma di legislatura e poi disponesse effettivamente di una legislatura, o anche di mezza, per attuarlo. A ben vedere, questo è il risultato di una scelta consapevolmente compiuta dai costituenti nel 1946-7, a causa delle paure soverchianti e simmetriche di una dittatura di destra e di una dittatura di sinistra. Ma oggi il rischio più grave per la democrazia non è quello del ritorno di una dittatura, bensì quello dell’impossibilità per qualsiasi Governo di realizzare un qualsiasi programma: rischio che all’inizio di questa legislatura era diventato quasi una certezza.
Se ora il referendum annullasse anche il risultato di questi due anni di lavoro compiuto in condizioni difficilissime, ritorneremmo alla situazione di tre anni fa; ma questa volta – temo – sarebbe ancora più difficile uscirne.
Il testo integrale sul sito www.pietroichino.it
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