Integrazione, energia, rifiuti: modello Brescia
È strano che Brescia non sia considerata un modello nel nostro Paese. E’ una realtà che non ha eguali in Italia: la città, di 200.000 abitanti, ha una popolazione di immigrati pari al 19%, quasi tutti occupati nell’industria e nei servizi. La provincia, di 1.263.000 abitanti, ha una presenza di immigrati del 15%, tutti al lavoro, comprese le donne, nelle attività industriali ed agricole (vino e olio, ma soprattutto foraggi e allevamenti). All’Associazione degli industriali dicono che il PIL provinciale, di 39,3 miliardi di Euro, viene prima di Slovenia, Lituania, Lettonia. Il tasso di disoccupazione è del 5,2% (meno della metà di quello nazionale), mentre la disoccupazione giovanile è del 16,3% (la metà di quella nazionale). L’export raggiunge il livello più alto in Italia. Si è fatta molta satira sul tondino e sulle acciaierie, ma sono le macchine utensili la punta di diamante dell’export, una produzione ad alto valore aggiunto con un contenuto di ricerca tale da coinvolgere costantemente le Università. Se ci fosse un collasso dell’immigrazione, aggiungono, dovremmo chiudere bottega in tutti i comparti. A Brescia, dove secondo le ultime rilevazioni, si parlano più di un centinaio di lingue, di sera è facile incontrare frotte di ragazzi di colore diverso, che discutono e giocano, come se si trovassero in un salotto. A me capita spesso di incontrare, in provincia, lavoratori pakistani, indiani, cingalesi in bicicletta che fanno il giro degli allevamenti di bestiame, data la loro capacità con gli animali. Su alcune strade poderali, che sono anche piste attrezzate per l’esercizio dello sport non competitivo, incrociano donne e uomini che corrono all’alba o al tramonto, per il jogging giornaliero, e salutano.
Parlo con Emilio Del Bono, Sindaco di Brescia del PD, che recentemente è stato rieletto già al primo turno. Mi confida che il segreto consiste in una integrazione tra gli autoctoni ed il pulviscolo degli immigrati avvenuta combattendo i quartieri ghetto, e conducendo una lotta ferrea agli estremismi: quello di alcuni immigrati che all’inizio tendevano a isolarsi in enclaves culturali, dove era fatica immensa far passare le leggi e le consuetudini italiane, e quello ipersecuritario di consistenti frange della Lega, che con il loro comportamento distorcevano la percezione di pericoli enfatizzati, ma irreali. “Siamo stati inflessibili anche con le ronde padane”, dice. E’ così che mentre negli ultimi vent’anni è costantemente diminuito il numero dei reati contro la persona e il patrimonio, la percezione degli abitanti non sembra divergere dalla realtà. L’amministrazione non ha lesinato investimenti per dotare la città di grandi quantità di verde attrezzato per bambini, mamme, giovani, anziani, con corsie preferenziali per i disabili. L’assenza di sporcizia e la cura delle attrezzature dà l’impressione al visitatore di trovarsi a Ginevra o a Stoccolma.
Com’è stato possibile, gli chiedo, costruire una realtà come questa nella nostra Italia che va in tutt’altra direzione? Mi guarda sorpreso. “Lo sai”, mi risponde. Eh sì, lo so, dato che ho partecipato anch’io al lavoro fatto. Molti dei nostri tesori li abbiamo ereditati dal passato, e in qualche modo li abbiamo valorizzati e incrementati. Secondo noi qui è avvenuta una saldatura virtuosa tra diverse culture del novecento: quella liberale impersonata nel primo novecento già da Zanardelli, e più tardi, sul piano culturale, dal filosofo Emanuele Severino, quella cattolica dalla quale proviene anche Paolo VI (un cattolicesimo gallicano, attento alle dinamiche sociali e culturali, che affonda le sue radici nel personalismo di Mounier e Maritain, e che gestisce tre case editrici tra le più avanzate in Europa, come “La Morcelliana”, “La Queriniana, “La Scuola Editrice”) e la tradizione socialista/comunista del movimento operaio che ha avviato con la componente cattolica della Cisl, a partire dagli anni 60 del secolo scorso, il processo di unità sindacale. La saldatura di quelle tre culture è stata la culla di èlites lungimiranti, sicure di sé, che hanno dato vita, mettendo insieme tutte le forze, a esperienze di organizzazione sociale avveniristiche per quel tempo, come la costruzione nella cintura esterna di quartieri popolari a basso costo, forniti di tutti i servizi necessari e di comfort tipici del centro, per favorire un inurbamento ordinato; e ad un welfare che è oggetto di studio ancora oggi.
Per fare solo qualche esempio, qui funziona da tempo il ciclo integrato della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, con la differenziata a pieno regime e un termovalorizzatore, che nel 2006 la Columbia University di New York ha eletto “miglior impianto del mondo”, che brucia una gran quantità di “monnezza”, non solo bresciana, e produce energia e calore che vengono immessi nelle reti che illuminano e riscaldano tutta la città. Sfrutta a questo fine anche l’enorme caldaia a metano che già negli anni ’70 distribuiva alla città l’acqua calda del teleriscaldamento, riducendo le bollette, ma anche l’inquinamento. C’è anche una discarica ovviamente, per le ceneri residue, che non produce esalazioni.
Ma quella saldatura, che ha favorito una collaborazione tra forze diverse, ha prodotto anche la decisione, più di trent’anni fa, di costruire una metropolitana leggera, modello Copenaghen, che va senza conducenti né controllori, che è pulitissima, ed ha opere d’arte in ogni stazione, unico esempio di trasporto pubblico in Italia che produce utili e fa cultura. Ha sviluppato anche una sanità all’avanguardia: la rete bresciana degli ospedali è un punto di riferimento per la ricerca in tutta Europa, e qui si viene, per farsi curare, da ogni regione dell’Italia.
Qui insomma, per la saldatura di quelle tradizioni, i servizi funzionano, producono utili e attraggono risorse materiali e immateriali da tutta l’Italia, e persino dall’Europa. “Si, sono testimone attivo di tutte queste trasformazioni”, dico a Del Bono, “perchè vi sono cresciuto dentro e non sono stato con le mani in mano, lo sai bene”. Anche il bisogno di conoscere la propria Storia ha generato impulsi fecondi. Brescia che è stata una delle capitali dei longobardi, custodisce tesori che sono stati recuperati e raccolti nel grande complesso di “Santa Giulia”, fatto costruire da Desiderio, l’ultimo re Longobardo, per la figlia Anselperga, ed ora patrimonio dell’umanità, dove si svolge una parte cospicua della vita culturale della città, con mostre, convegni, ecc.
Capisco che il Sindaco vuole dirmi un’ultima cosa. E’ la stessa che voglio dirgli io. Ci sono due valori che attraversano da sempre quelle tre culture, e ne rappresentano in qualche modo il collante. Il primo è il valore del lavoro, l’altro ha a che fare con l’etica della responsabilità verso sé stessi e verso l’altro. Non è mera retorica, lo so per esperienza, e lo sanno anche gli immigrati, che non a caso qui si integrano bene. Siamo un po’ fissati con questi valori, che hanno una venatura calvinista, non c’è dubbio. Li si apprende con il latte materno, li si respira nell’ambiente. Io qui ho frequentato sia le superiori, sia l’Università lavorando già dai 14 anni ed era una cosa normale. Con me infatti c’erano moltissimi ragazzi che avrebbero anche potuto, per condizione famigliare, fare diversamente. Persino mio figlio: dopo la scuola dell’obbligo mi disse, “ anch’io voglio fare così”. E pure lui ha fatto ogni lavoro disponibile, mentre frequentava le superiori e l’Università. Qui, per i più, il lavoro è ancora una sorta di religione civile, e si riverbera anche sullo studio. Ecco perchè il reddito di cittadinanza e la quota cento danno fastidio, e qualche creativo esprime un suo pensiero su alcuni muri della periferia cittadina, scrivendo: “Quanto hanno lavorato Salvini e Di Maio prima di entrare in politica? Zero”. Insomma, c’è sempre di mezzo il lavoro. “Cosa accadrà domani?” chiedo al Sindaco. “Boh”, mi risponde, “Io seguo una massima che ho imparato da bambino: fai quel che devi”… “Si, e accada quel che può”, aggiungo io, il vostro scriba.
Lanfranco Scalvenzi
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