La ballata delle frontiere

Ripubblichiamo la recensione di Roberto Roscani al libro di Flavio Fusi “La ballata delle frontiere. Storie dal secolo belva” (Exorma edizioni, 2024) tratta dal sito https://www.foglieviaggi.com

Frontiera: più che indicare un limite, un confine, questa parola sembra designare il luogo in cui si è fermato il fronte. La frontiera incorpora il concetto della guerra. Chissà per quale assonanza, quando ho preso in mano “La Ballata delle frontiere” mi è venuto in mente un vecchio film western di Sam Peckinpah, “La ballata di Cable Hogue”. Poi – leggendo questo bel libro di Flavio Fusi – ho capito che per vie misteriose c’entra anche quel film che ho visto mezzo secolo fa. E vi spiegherò il perché.

Difficile definire “La ballata delle frontiere”. È un libro di viaggio, come si addice ad un giornalista (un vecchio amico, incrociato tanti anni fa all’Unità prima che la sua strada diventasse quella dell’inviato del Tg3 e poi del corrispondente) che ha passato tre quarti della vita inseguendo le notizie. Quasi sempre quelle brutte. Così, da un capitolo all’altro, quasi senza accorgersi, ci si trova in Guatemala o in Perù, in Kosovo, in Macedonia, in Bosnia o in qualche kraijna, quelle assurde regioni di frontiera (ci risiamo) in cui le linee si confondono, in cui le genti e le minoranze etniche diventano improvvisamente per pochi chilometri maggioranze, come grani di riso nero finiti per caso in mezzo a quello bianco. O in Georgia, o in Ucraina, o nelle strade di Mosca, come in quelle del Messico.

L’occhio di Flavio Fusi non guarda le linee di confine. Guarda le persone, gli uomini, le donne i bambini (quanti bambini si perdono in queste faglie) e le guarda con passione, anche se questa empatia talvolta sembra lasciare il passo all’amarezza di chi ne ha viste troppe. Ma mai al cinismo, mai allo sconforto.

Le frontiere sono luoghi poco rassicuranti, ma anche luoghi dove la vita sembra prendere un ritmo accelerato, dove le cose avvengono impietosamente a una velocità inattesa. Fusi compie il suo viaggio in un tempo in cui il passato e il presente talvolta si sovrappongono: si viaggia in posti in cui lui è passato anni fa, ferite ancora fresche dei conflitti, e che rivede oggi senza mai dimenticare le persone che vi ha incontrato, e guardando anche alle storie che affondavano in un passato lontano e a quelle che gli eventi hanno determinato.

Curiosamente, le note che corredano ciascun capitolo fanno riferimento non, come ci si aspetterebbe, a volumi di storia, ma nella loro maggioranza a testi letterari, ai grandi scrittori che quelle frontiere (anche solo metaforicamente) hanno a loro volta attraversato. E questi brevi testi, che siano di Marquez o di Osip Mandel’štam, di Andric o di Bulgakov, contengono verità tanto forti da illuminare ogni cosa. Anche le pagine di Fusi sono certamente tutte una descrizione veritiera della realtà, ma sono a modo loro anche un percorso letterario: si parla molto in questo periodo di “autofiction”, ossia di una letteratura che usa il personaggio reale del suo autore per creare un prodotto pienamente letterario. Qui – se volete – siamo di fronte ad un processo inverso, un processo in cui il reale, non soltanto osservato ma compreso e metabolizzato con gli strumenti della letteratura, produce una “narrazione” non di finzione ma di profonda comprensione.

Una narrazione – per di più – in cui il narratore c’è ma resta solo come una voce sullo sfondo. Non so come potrebbe chiamarsi questa specie di letteratura nuova ma credo che qualche critico dovrebbe dedicarsi a decrittarla e a comprenderne gli elementi costitutivi. Non che non ci sia una grande tradizione di scrittori inviati di guerra. C’è, che sia quella di Ryszard Kapuscinski (forse il più grande inviato di guerra del Novecento, che scriveva per l’ufficialissima agenzia di stampa polacca Pap) o quella di Curzio Malaparte, o di un personaggio straordinario a cavallo tra “ufficialità” e dissenso come Vasilij Grossman. Ma credo che oggi questo possa diventare un fenomeno diverso (penso ai libri non fiction di un grandissimo come Martin Amis), più significativo.

Flavio Fusi in poche righe, e partendo dal volto di un ragazzo còlto su un sentiero o in un villaggio peruviano, ci restituisce un secolo di persecuzione e oppressione fatto di deportazioni, o al contrario di popoli migranti bloccati in caseggiati popolari e costretti a lavorare in fabbriche e miniere, migliaia di indios sterilizzati a forza. E insieme ci riporta alle radici di questa guerra voluta da Putin in Ucraina mostrandola in tutta la sua mostruosa semplicità senza però mascherarne le complesse radici, le divisioni, le frontiere.

Vi devo la spiegazione sulla “Ballata di Cable Hogue”. Sì, anche quel film parlava di una frontiera, forse di due. È un western tardo e complesso, si svolge all’inizio del Novecento, e tutta la sua prima parte – violenze e tradimenti, uomini abbandonati nel deserto che si salvano trovando una fonte segreta – appartiene alla mitologia della frontiera cui tanto è legata la cultura americana. Poi nelle ultime scene fa la sua comparsa un’automobile, i cavalli e le avventure sono il passato, il presente è lo sviluppo industriale. Alle vecchie ideologie se ne sostituiranno delle altre, è qui che si è spostata la frontiera.

Il libro di Flavio Fusi (edito da Exòrma ) accanto al titolo porta un sottotitolo forse più oscuro: “La ballata delle frontiere. Storie dal secolo belva”. Di che secolo parla? Il Novecento o quello nuovo che non ha neppure un nome? La verità è che la linea tra passato e presente è incerta, si sposta avanti e indietro contemporaneamente e Fusi, col suo sguardo di oggi, la sua memoria, i suoi taccuini d’appunti, i ricordi degli amici, viaggia lungo questa frontiera. Il “secolo belva” è una idea ispirata ad un verso di un grandissimo poeta russo, Osip Ėmil’evič Mandel’štam, scritto nel 1922 (in piena Nep, con Lenin già ammalato e ammutolito, prima che Stalin diventasse padrone assoluto) e di una bellezza struggente. Eccone due strofe.

Mio secolo, mia belva, chi riuscirà/ a guardarti nelle pupille/ e col proprio sangue congiungerà/

le vertebre dei due secoli?/ Si gonfieranno ancora le gemme,/ zampillerà un germoglio di verde,/

ma è spezzata la tua spina dorsale,/ mio magnifico, mio misero secolo!

E con un sorriso insensato/ guardi indietro, debole e crudele,/ come una belva, agile un tempo,/

guarda le orme delle sue zampe.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *