L’Italia e l’euro: la versione di Cottarelli

Poiché Cottarelli è tornato di attualità non più tardi di una settimana fa come possibile premier e poiché il rapporto tra Italia ed euro lo è da molti anni può essere interessante andare a vedere come la questione viene trattata nel suo ultimo libro: “I sette peccati capitali dell’economia italiana”.

Iniziamo però dall’elenco dei primi sei peccati capitali: evasione fiscale; corruzione; eccesso di burocrazia; lentezza della giustizia; crollo demografico; divario tra Nord e Sud. L’ultimo è dedicato alla difficoltà di convivere con l’euro.

Sono peccati o limiti ormai noti e ampiamente riconosciuti che possono benissimo rappresentare la gran parte dei deficit strutturali del nostro Paese. Altri ce ne sarebbero come, per esempio, la dimensione delle imprese per il 95% piccole o piccolissime e, in quanto tali, impossibilitate a fare ricerca e ad innovare e molto dipendenti dalle banche per la raccolta dei capitali. Cottarelli, però, non compie un’analisi completa delle caratteristiche del sistema Italia, ma intende focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti.

In ogni caso punto per punto ne esce un quadro poco rassicurante sullo stato del nostro Paese. L’evasione fiscale per esempio fa mancare alle casse pubbliche una somma superiore ai 120 miliardi di euro ogni anno. Se quelle entrate arrivassero gran parte dei deficit di risorse sarebbero risolti e il debito potrebbe essere abbattuto in poco tempo. La corruzione c’è, ma le dimensioni del fenomeno non sono quantificabili. Spesso si confonde la percezione con la realtà (quando si chiede alle persone quanto percepiscano la corruzione e di quali episodi reali siano a conoscenza i risultati sono diametralmente opposti). In ogni caso è un freno per l’efficienza della macchina pubblica e per quella delle attività economiche perché premia le peggiori. L’eccesso di burocrazia è un teatro dell’assurdo perché si fonda su un numero esagerato di norme, spesso scritte male che complicano le situazioni che dovrebbero disciplinare e, nello stesso tempo, formulate anche in modo da giustificare la funzione di un apparato burocratico inefficiente e con un eccessivo potere discrezionale (se la norma è complicata e farraginosa solo il burocrate può interpretarla e applicarla). La lentezza della giustizia è proverbiale ed è una delle cause di un’inefficienza di sistema che penalizza l’economia e i rapporti tra cittadini e della difficoltà nell’avviare e condurre attività imprenditoriali.

Il crollo demografico è un’altra realtà ben conosciuta, ma sottovalutata. Una popolazione che invecchia significa più anziani da assistere e mantenere e meno giovani che producono ricchezza. L’aumento del tasso di natalità non può più essere una questione privata, ma deve diventare il cuore di politiche specifiche che puntino a dare servizi e sostegni a chi decide di mettere al mondo dei figli.

Il divario Nord Sud è una nota dolente che nemmeno viene più presa sul serio. La si affronta spesso più con gli stereotipi mutuati dai film di costume che come la principale frattura che grava sull’Italia. Di fatto tutti gli indicatori citati da Cottarelli indicano che al Sud spesa e dimensione degli apparati pubblici sono maggiori in rapporto alla popolazione di quelli del centro nord, ma i risultati in termini di capacità di produrre ricchezza sono drammaticamente insufficienti. È una delle più vecchie questioni che ci portiamo dietro fin dall’inizio della nostra storia nazionale ed è sempre attuale. Nel libro non si parla di mafie, camorra, ‘ndrangheta, ma è ovvio che la diffusione della criminalità condiziona pesantemente lo svolgimento della vita civile, il funzionamento delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche, l’economia, i rapporti civili.

L’ultimo punto è dedicato alla difficoltà di convivere con l’euro. Ultimo non solo perché è il settimo, ma anche perché in ordine cronologico è la naturale conseguenza degli altri sei. Innanzitutto alcune constatazioni. L’Italia cresce poco rispetto alle migliori economie europee. Il reddito pro capite dopo l’entrata nell’euro prima ha rallentato, poi ha iniziato a diminuire. Una dinamica che ci discosta dagli altri paesi europei e che dura da un ventennio. Ciò che è accaduto è che, cessata la possibilità di svalutare la moneta, la competitività italiana è caduta. Un esempio rende l’idea efficacemente: nel 1970 un marco valeva 172 lire, nel 1998 987 lire. Tale divario indica che i costi di produzione italiani erano aumentati molto più di quelli tedeschi e che veniva ristabilita la competitività con la svalutazione. Ovviamente ciò significava che salari, stipendi, pensioni e prezzi dovevano all’epoca rincorrere continuamente la caduta di valore della moneta. Non a caso il più grande scontro sociale nel corso degli anni ’70 ed ’80 ci fu sulla scala mobile (e finì con un netto taglio). Con l’entrata nell’euro è venuta meno la possibilità di recupero della competitività svalutando.

Per anni ci si è anche scontrati sul costo del lavoro che sarebbe stato più alto in Italia rispetto ai più forti partner europei (costo del lavoro non significa solo guadagno del lavoratore, bensì costo complessivo per il datore di lavoro). Il dato è che tra il 2000 e il 2007 in Germania è rimasto pressoché stabile e coerente con l’aumento della produttività. In Italia è aumentato del 20-25% cioè è cresciuto più della produttività. Anche gli stipendi dei dipendenti pubblici sono cresciuti così come la spesa pubblica nel suo complesso mentre la parte destinata agli interessi sul debito calava per effetto dell’euro. Ciò ha significato che i margini esistenti per la diminuzione del debito pubblico sono stati usati per allargare la spesa. Intanto cresceva il costo del petrolio e irrompeva sui mercati la globalizzazione (specialmente Cina e India) che toglieva spazio alle merci italiane. L’effetto è stato una diminuzione dei margini di profitto e quindi degli investimenti.

La produttività del lavoro dal 1998 al 2016 aumenta in Italia del 3,5% e in Germania del 47%. Tra il 2000 e il 2016 le esportazioni italiane crescono del 25%, quelle tedesche del 115%.

Alla crisi mondiale del 2008 l’Italia arriva, quindi, con una minore competitività e un debito ancora troppo alto. Queste le premesse del crollo del 2011 con la drastica impennata dei tassi di interesse e la conseguente stretta sulla spesa che si riverbera su tutta l’economia portando alla diminuzione del 10% del Pil in tre anni.

Come è noto ci salva l’intervento della Bce reso, però, possibile dalla brusca correzione dei conti pubblici realizzata dal governo Monti.

Che fare? La ricetta di Cottarelli è che, per uscire da questa situazione, occorre una profonda trasformazione del modo in cui opera l’economia italiana per aumentarne efficienza e competitività. Bisogna però non illudersi che: la crescita possa essere trainata dalla spesa pubblica (gli investimenti pubblici ci vogliono, ma bisogna imparare a spendere meglio); gli investimenti privati possano essere sostenuti in toto dal credito bancario; un aiuto decisivo possa arrivare da investimenti infrastrutturali europei.

La questione fondamentale è che la crescita deve essere trainata dalle esportazioni e il recupero di competitività deve diventarne il motore. Per questo è anche necessario diminuire la tassazione, ma per farlo occorre tagliare la spesa pubblica.

In conclusione Cottarelli avverte che non è possibile considerare lo Stato come la soluzione di tutti i problemi personali e sociali cioè come il risolutore di prima istanza anziché di ultima. Infine la trasformazione economica deve avere alla sua base una trasformazione sociale e culturale contrastando la tendenza all’individualismo e al non rispetto delle regole.

Sembra proprio che l’analisi di Cottarelli sia quella giusta

Claudio Lombardi

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