Perché Israele cresce e la Palestina no

Settantacinque anni. Due popoli, due destini. Israele è una potenza tecnologica, una democrazia imperfetta ma vitale, un Paese che galleggia nell’ostilità del Medio Oriente. La Palestina, invece, è sinonimo di stagnazione, miseria, conflitti endemici. La domanda è semplice: perché?

Il bivio del 1947: chi ha scelto cosa

Tutto comincia con la spartizione dell’ONU nel 1947: due Stati, uno ebraico e uno arabo. Israele dice sì. Gli arabi no. Preferiscono la guerra. La risposta araba è un secco “gettiamoli a mare”. E il risultato? Israele sopravvive e si rafforza, mentre la Palestina resta un progetto abortito.

Israele: un Paese costruito, letteralmente, dal nulla

Quando nasce nel 1948, Israele è un pugno di sabbia e idealismo. Ma gli ebrei, reduci dalla Shoah, non hanno scelta: devono farcela. Fondano università, imprese, città. Dal kibbutz alle startup: Israele trasforma la scarsità in opportunità. Gli USA aiutano? Sì, ma solo dopo la Guerra dei Sei Giorni. Prima Israele era armato peggio degli arabi. A fare la differenza non sono stati i dollari, ma la mentalità.

Palestina: l’industria del martirio e la corruzione sistemica

E i palestinesi? Ostaggio di loro stessi. Hanno avuto più soldi di quanti Israele ne abbia mai visti agli inizi: miliardi di dollari di aiuti dall’Occidente e dai Paesi arabi. Ma dov’è finito quel denaro?

La risposta sta nei conti svizzeri dei leader di Fatah e Hamas, nei razzi al posto delle scuole, nei tunnel al posto degli ospedali. La Palestina non ha costruito un Paese: ha costruito un’ideologia. L’ideologia del martirio, la religione della vittima eterna. Ogni fallimento viene scaricato su Israele, ogni tentativo di autoriforma finisce in faide interne.

Lavoro, istruzione, merito: la differenza che nessuno vuole vedere

Israele ha investito nella scienza, nella cultura, nella difesa. La Palestina ha investito nell’odio, nell’addestramento dei bambini a diventare shahid, nei libri di testo che cancellano Israele dalle mappe. In Cisgiordania ci sono più università che a Gaza, ma il sistema educativo forma militanti, non ingegneri.

Le scelte che contano

Nel 2005 Israele si ritira da Gaza: zero soldati, zero coloni. Risultato? Hamas prende il potere e trasforma la Striscia in un’enclave islamista armata, lancia razzi su Israele e usa la popolazione come scudo. Avrebbero potuto fare di Gaza una Singapore del Mediterraneo, ma il business dell’odio paga di più.

E allora?

Settant’anni dopo, Israele fa atterrare sonde sulla Luna, esporta intelligenza artificiale e difende la sua democrazia perfino nelle piazze. La Palestina resta ferma, congelata nel tempo, un eterno campo profughi con bandiere nere.

Non è Israele che impedisce la pace: è la leadership palestinese che impedisce il progresso, alimentando un conflitto che tiene in ostaggio anche il suo stesso popolo. E l’Occidente, complice e ipocrita, preferisce accusare Tel Aviv piuttosto che chiedere ai leader palestinesi: “Perché non avete costruito niente in settant’anni?”

Riccardo Urbani (da facebook)

1 commento
  1. Giovanni Terracina dice:

    Il problema principale è che ipalestinesi nn li vuole nessuno , peggio degli zingari in Europa

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *