Qualche spiegazione sulla vittoria di Trump
Fra le tantissime analisi sulla vittoria di Donald Trump c’è quella di Francesco Costa che si distingue per lucidità e completezza. Di seguito una sintesi e alcune citazioni. Dalla newsletter Da Costa a Costa del Post (https://www.ilpost.it/newsletter/) alla quale si rimanda per il testo integrale.
I dati sul voto indicano che Harris otterrà alla fine tra 75 e 76 milioni di voti, circa il 48,5 per cento, contro i 77-78 milioni di voti a cui dovrebbe fermarsi Donald Trump cioè intorno al 50 per cento. Da notare che, dove ha fatto campagna elettorale riempiendo le tv con i suoi spot e dove ha battuto città dopo città, Harris è andata meglio che nel resto del paese. È però andata molto male dove l’elezione si è giocata meno su di lei e più sul Partito Democratico in generale e su questi anni. Harris ha perso le elezioni perché una parte del suo elettorato ha deciso di votare per Trump.
La campagna di Harris non è stata perfetta: ha sprecato la scelta del vice, si è schiacciata su Biden, si è incagliata nella difesa del paese dal “fascismo incombente”, tema che non interessa a nessuno che non sia già saldamente con i Democratici. E allora cosa non ha funzionato del partito?
Le premesse di questo risultato sono note. Innanzitutto l’inflazione, poi la decisione di ridurre al minimo la sorveglianza del confine (milioni di persone per le strade nel Texas e da lì in tante città americane), quindi la scelta di Biden di ricandidarsi alle elezioni. La crescita dei voti a Trump c’è però stata anche fra le donne, i latinos, i giovani, ovunque, ma soprattutto dove governano stabilmente i Democratici. Il partito si è giocato una parte significativa del suo sostegno nella classe operaia, in modo ormai trasversale ai gruppi etnici.
Qual è stata la causa prevalente? Dopo le elezioni del 2016 quelle di Trump contro Clinton il Partito Democratico ha deciso che allo spostamento a destra della popolazione servisse rispondere spostandosi a sinistra. Si vide chiaramente durante le primarie del 2020, in una campagna elettorale contrassegnata da proposte e principi largamente impopolari – stanziare 16mila miliardi per il clima, nazionalizzare la sanità, tagliare i fondi per il confine, depenalizzare l’immigrazione irregolare. La stessa Harris è ancora perseguitata dalle sue promesse in quella campagna: chiudere tutti i centri per migranti, spingere gli americani a mangiare meno carne, vietare l’estrazione di gas naturale.
Harris andò così male che si ritirò prima dell’inizio di quelle primarie che poi vinse facilmente Biden che ebbe i voti della classe operaia e dei non bianchi. Biden fu eletto, ma le forze che plasmano la linea, l’identità e le priorità del Partito Democratico avrebbero continuato a spingere dalla stessa parte.
I tempi straordinari del post-pandemia avevano reso possibile spendere migliaia di miliardi senza tagliare nulla, a debito, contribuendo all’aumento dell’inflazione. Sul piano dei diritti e delle questioni culturali, la Casa Bianca si mise al seguito della cultura progressista dei college e delle città, sempre più detestata in tutto il paese, adottando il gergo e le priorità dei gruppi di attivisti che nel tempo sono diventati lo scheletro del Partito Democratico, non per le richieste della base ma per l’influenza dei loro ricchi finanziatori.
Per questo motivo appaiono infondate le tesi di chi sostiene che i Democratici abbiano perso le elezioni per le loro politiche economiche, perché avrebbero «abbandonato la classe operaia». Quell’abbandono c’è stato, ma non sull’economia. Biden è stato il presidente più vicino di sempre ai sindacati e al mondo del lavoro. La spesa per il welfare della sua amministrazione è stata gigantesca. La classe operaia ha visto i suoi stipendi crescere più rapidamente di ogni altro segmento della popolazione.
L’amministrazione Biden ha salvato i fondi pensione di minatori e pompieri e ha sparpagliato grandi fondi per infrastrutture e reindustrializzazione con l’esplicito obiettivo di aiutare la classe operaia, i più poveri, i segmenti elettorali in fuga dal Partito Democratico. Le diseguaglianze in America si stanno riducendo e da un pezzo. Decisive, invece, sono state le questioni culturali.
Negli ultimi quattro anni, infatti, il Partito Democratico ha assunto posizioni radicalmente impopolari su moltissime questioni non economiche: si è californizzato , dal momento che la sua proposta politica è stata elaborata sempre di più dai gruppi di attivisti e dai ricchi finanziatori – bianchi, laureati, di città – e sempre meno dalla sua base e dalla classe operaia. Ogni forma di contrasto all’immigrazione irregolare è diventata quindi tabù, con gravi conseguenza nelle città tanto che ora persino molti elettori progressisti chiedono espulsioni di massa. A chiunque obiettasse è stato dato del razzista. Il sostegno ai diritti delle persone trans è diventato il rifiuto dell’esistenza stessa del sesso biologico e l’incapacità di rispondere alla domanda “chi è una donna?”. A chiunque obiettasse è stato dato del transfobico. La lotta per la libertà di scelta sull’aborto è diventata la difesa delle interruzioni di gravidanza anche dopo il sesto mese. La depenalizzazione delle sostanze è diventata grande tolleranza per spaccio e consumo indiscriminato. La difesa delle quote fisse per le minoranze nelle università (dichiarate incostituzionali), è proseguita nonostante penalizzasse sistematicamente le persone di origini asiatiche; la lotta per un’istruzione più equa è diventata un’assurda battaglia contro i voti a scuola e le eccellenze.
Temi che hanno definito l’identità del Partito Democratico come radicale e lontano dalle persone normali, ma vicino alle università e alle città dove i bianchi ricchi laureati bastano a se stessi, dove i Democratici governano (o governavano ) senza concorrenza. Con risultati pessimi. La qualità del governo offerto dai Democratici nei posti in cui governano indisturbati è penosa. Le case costano moltissimo perché l’allergia dei progressisti allo sviluppo immobiliare ha reso l’offerta del tutto inadeguata. Il numero delle persone senzatetto è esploso e gli attivisti di sinistra si oppongono alla costruzione di dormitori e rifugi (perché bisogna fare le case, dicono; poi si oppongono anche alle case). Le strade sono piene di persone che stanno male, pericolose per se e per gli altri. I negozi chiudono per i troppi furti. Nei supermercati una gran parte dei prodotti viene tenuta sotto chiave. Le scuole crollano nelle classifiche. Le tasse sono le più alte d’America senza che questo sia giustificato dalla qualità dei servizi. Intervenire è impossibile perché contraddirebbe ogni volta un dogma ideologico diverso.
La grande storia di questi anni è proprio la fuga di milioni di persone da posti come la California o il New Jersey o città come Philadelphia e New York per raggiungere il Texas o la Florida. E la ribellione degli elettori rimasti, proprio in posti come la California e New York. Anche le persone che non seguono la politica vivono le conseguenze che la politica ha sulle loro vite.
Una divaricazione netta tra la sinistra e i ceti popolari che hanno idee molto distanti da quelle della sinistra sull’immigrazione, sul politicamente corretto e sui diritti civili.
C’è poi un altro problema: il modo con cui il mondo del Partito Democratico tratta chi non si allinea a tutte le loro idee. Può sembrare incredibile, ma i Repubblicani sono genericamente accoglienti con gli elettori che condividono metà o due terzi delle loro proposte mentre per le élites, i “gruppi” e gli attivisti dei Democratici, le posizioni non negoziabili sono diventate tantissime: chi è d’accordo con due terzi delle loro proposte è un bigotto razzista omofobo di destra che farebbe bene a togliersi la maschera e andare con quegli altri. Infatti è quello che hanno fatto. Intransigenza ideologica, un partito sempre più piccolo e sempre meno rappresentativo e la crisi del modello di governo nelle città e negli stati democratici hanno portato alla paralisi politica e al collasso elettorale
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