Un elettorato disinteressato ed egoista?

A poco più di un mese dal voto il primo partito resta quello dell’astensione. Tanti gli appelli – dal Presidente della Repubblica alla Chiesa – ai cittadini perché vadano a votare. Argomentazioni assolutamente fondate sull’importanza del voto e della partecipazione alle scelte politiche vengono ripetute con parole convincenti. Eppure la sensazione è che questi appelli non tocchino il cuore e la mente di milioni di italiani.

Scrive Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera che oggi prevale il disinteresse perché “vince una componente né politica né culturale, ma antropologica: abbiamo di fronte un elettorato vagotonico (…) indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere: un elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi”.

Ora, più che il riferimento alla patologia medica, è condivisibile che l’indifferenza e il ripiegamento sui propri interessi personali siano molto diffusi. E non soltanto in occasione delle elezioni, bensì ogni volta che la vita quotidiana di tanta gente si incontra con regole di comportamento corretto e responsabile.

Oggi. E prima? Se parliamo di concentrazione sui propri interessi personali non sembra che la situazione sia così diversa da quella già conosciuta in epoche passate quando la partecipazione al voto era costantemente sopra all’80%. Non è che in quegli anni i cittadini fossero esempi di virtù civiche. Tante piccole discariche a cielo aperto erano disseminate nelle vie delle città o appena fuori dai centri abitati, le frodi erano molto diffuse così come l’uso sfacciato di ogni possibile beneficio a favore dei lavoratori dipendenti e gli autonomi godevano, di fatto, di un regime fiscale diverso da quello legale. Molti problemi personali si potevano affrontare grazie alla corruzione e, se si guarda al mondo delle imprese, il ricorso all’uso anomalo di risorse pubbliche era molto frequente (finanziamenti e agevolazioni, Cassa del Mezzogiorno).

Gli anni della massiccia partecipazione al voto sono stati anni di inflazione a due cifre, di ricorso sistematico al debito pubblico per coprire qualunque spreco, di corruzione diffusa, di invadenza della politica in ogni settore della vita sociale, di privilegi e di abusi concessi a chiunque avesse una qualche forma di protezione individuale (raccomandazioni) o collettiva (sindacalismo).

Erano, però, anche anni nei quali la presenza di partiti di massa trasmetteva agli italiani l’impressione che a loro spettasse inevitabilmente la gestione del potere che aveva l’ambito nazionale come confine riconosciuto. La scelta di campo occidentale non si discuteva, ma poi la sostanza del potere (moneta, finanza) stava tutta all’interno.

Non è che allora non ci fossero le caste. C’erano ben più di oggi ed erano intoccabili perché il potere era nelle loro mani e lo usavano per cementare un blocco sociale nel quale ognuno poteva sperare di avere qualche vantaggio (dalla casa popolare, alla pensione di invalidità, al finanziamento a fondo perduto). C’era anche una diffusa consapevolezza che la dimensione collettiva portasse vantaggi per intere categorie di persone e che la politica fosse lo strumento per arrivarci.

Oggi, il rancore sociale poggia sulla delegittimazione della classe dirigente, l’indignazione sulla caduta del potere nazionale e l’enorme diffusione dei centri di produzione di informazione e di opinione (ogni account facebook lo è) ha portato allo sgretolamento delle gerarchie basate sulle competenze e al disorientamento. L’aggressività individualista di oggi, tuttavia, non può certo eguagliare l’aggressività organizzata dei movimenti di protesta o delle trame eversive del passato.

Oggi prevale la sfiducia nella politica perché non appare più l’unico ambito nel quale si concentra il potere. Di conseguenza i partiti sono stati delegittimati e sono avvertiti come ingombranti ed inutili.

In realtà il moralismo dilagante (sono tutti uguali, sono tutti venduti) segnala solo la rabbia perché si avverte la debolezza del potere che non è più in grado di distribuire compensi per acquisire il consenso. Il Censis ha individuato nella categoria del rancore la caratteristica diffusa di questi anni.

Ricorda De Rita che le campagne elettorali degli ultimi quindici anni non sono state condizionate dalle proposte sull’Europa o sui conti pubblici, bensì dalla strumentalizzazione politica dei sentimenti dell’elettorato. D’altra parte cosa fu il voto del 2013 se non un’espressione del rancore collettivo? Anzi, di tanti rancori diversi.

Molti non voteranno sui programmi, ma solo sul sentimento che alcune proposte riusciranno a trasmettere (flat tax, reddito di cittadinanza, rottura dei vincoli europei). L’unica possibilità per chi non vuole imboccare questa strada è un continuo tentativo di ragionare sulla realtà. Ragionare insieme come introduzione ad un nuovo andamento della democrazia che si apra alla partecipazione dal basso. Ascoltare, dialogare, accogliere idee e suggerimenti. I politici che riusciranno a farlo alla lunga saranno premiati

Claudio Lombardi

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