La volontà di pace che manca nei capi palestinesi
Mai come oggi ciò che accade intorno all’Europa pesa moltissimo sul nostro futuro. Ci sono due guerre – in Medio Oriente e in Ucraina – che hanno come obiettivo l’Occidente. Non possiamo pensare che non ci riguardino e che i nostri problemi si esauriscano con le beghe politiche interne o con l’attivismo regolatorio delle burocrazie europee. Al contrario, ogni politica dovrebbe essere finalizzata a difenderci da queste guerre rafforzando le capacità decisionali e la forza economica dell’Unione europea a cominciare dalle politiche estere e di difesa (inclusa la produzione di armi e munizioni). Per l’Italia il problema è più serio che altrove perché le nostre fragilità (inefficienza della spesa pubblica, sottosviluppo del sud, sprechi clientelari, scuola incapace di preparare e orientare la mano d’opera che serve all’economia) ci frenano e ci portano al declino.
Una di queste guerre è quella che l’islamismo conduce contro Israele e contro i suoi alleati e sostenitori. Il tentativo è quello di impegnare Israele in una guerra continua che ne freni lo sviluppo ed impedisca la distensione con gli stati arabi. Il massacro dei palestinesi, apertamente invocato da Hamas, serve ad isolare Israele suscitando lo sdegno e la ribellione delle opinioni pubbliche mondiali. Il fine è la conquista della leadership del mondo musulmano che, a sua volta, si inserisce nel quadro di uno scontro mondiale che vede in campo Cina, Russia, Turchia e Iran per avere campo libero nello stabilire una loro supremazia globale alla testa del cosiddetto sud del mondo.
Il pretesto dello stato per i palestinesi è perfetto per sventolare sotto il naso degli ingenui una contrapposizione tra oppressi e oppressori che semplifichi ogni giudizio e porti all’odio per gli ebrei e per chi li sostiene.
Di questo tratta un articolo di Federico Rampini pubblicato sul Corriere della Sera del 5 aprile del quale segue una sintesi.
L’analisi di Rampini segue il filo dell’evoluzione del pensiero dello storico israeliano Benny Morris che, a partire dagli anni ’80, adottò un approccio più aperto e comprensivo verso le ragioni dei palestinesi. Appartiene a quella riflessione la sua opera più importante: “Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001”. Un capolavoro di apertura mentale, equilibrio ed equidistanza scrive Rampini. Oggi Morris è diventato molto più severo verso i palestinesi e considera un punto di svolta l’anno 2000, quando il premier israeliano Ehud Barak offrì al leader dell’Organizzazione per la liberazione palestinese (Olp) Yasser Arafat la migliore proposta mai formulata da parte israeliana per la costruzione di uno stato palestinese. La proposta fu respinta e così, invece della pace, arrivò un’ondata di attentati terroristici, di una violenza senza precedenti fino a quel momento. Eppure anche in quella situazione vi fu chi preferì perdonare i palestinesi “partendo dal principio che loro non sono mai responsabili; essendo vittime, per definizione possono fare quello che vogliono”. In pratica delle vittime che si sentono sempre dalla parte della ragione. Non è forse ciò che abbiamo visto realizzarsi nelle manifestazioni pro palestinesi seguite al 7 ottobre?
Secondo Morris (in un’intervista al Wall Street Journal) «Israele viene visto come onnipotente in confronto ai palestinesi. In realtà noi siamo circondati da un mondo islamico egemonizzato dall’Iran, e l’Occidente ci sta voltando le spalle. Siamo noi la parte debole ».
Morris accusa noi occidentali di non aver voluto vedere che il massacro del 7 ottobre ha avuto il consenso e l’applauso di una vastissima maggioranza dei palestinesi. Per questo oggi anche la sinistra israeliana on si fida più dei palestinesi.
Le ragioni storiche della loro rabbia dei palestinesi dovrebbero essere viste andando oltre l’occupazione dei territori da parte israeliana. Se non la si considera alla luce delle guerre dalle quali è nata ci si riduce ad un’interpretazione basata sulla contrapposizione tra vittime e carnefici che impedisce di vedere la realtà del conflitto. In realtà la prima occupazione è stata quella dei territori assegnati dall’ONU ad uno stato arabo palestinese da parte dell’Egitto (Gaza) e della Giordania (Cisgiordania) a seguito della guerra del 1948. Fino al 1967 (guerra e occupazione israeliana) non si è più parlato di stato palestinese.
In realtà, afferma Morris, l’ossessione per la sparizione della presenza ebraica ha portato gli stati arabi a seguire oltre ogni ragionevolezza la strada della guerra e i palestinesi a compiere errori clamorosi. «Ciascuna delle loro decisioni – dice lo storico – ha peggiorato la vita del loro popolo, e ha fatto sì che al passaggio successivo la proposta dei due Stati diventasse meno conveniente per loro. Nel 1937 ai palestinesi fu offerto il 70% della Palestina, rifiutarono e scelsero la guerra. Nel 1947 gli fu offerto il 45%, e la parte spettante agli israeliani era soprattutto desertica, di nuovo i palestinesi scelsero la violenza. All’epoca di Clinton potevano ottenere il 21-22% e scelsero l’Intifada». A completare il quadro si può aggiungere che hanno avuto Gaza e l’hanno usata per attaccare Israele.
Prosegue Morris: «Per decenni la sinistra e il centro in Israele volevano la soluzione dei due Stati. Oggi non più. La maggioranza di noi israeliani teme che Hamas conquisterebbe il controllo della Cisgiordania. E la Cisgiordania diventerebbe la nuova base di attacco contro di noi, come lo è stata Gaza. Nessuno può imporre una soluzione basata su due Stati, perché non la vogliono gli arabi e non la vogliono gli ebrei».
Per questo «Netanyahu ha ragione su un punto, e su questo ha l’appoggio della maggioranza di noi israeliani, me compreso: dobbiamo andare fino in fondo nella distruzione di Hamas».
In conclusione, cacciare Netanyahu è necessario, ma non risolve il problema della volontà di guerra degli islamisti e dei palestinesi che in grande maggioranza li seguono. Finchè questa dura non ci può essere pace.
Claudio Lombardi
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!