103 giorni di un governo di conservazione (di Claudio Lombardi)
Meglio avere un governo che non averlo. Meglio che qualcuno rifinanzi la Cassa in deroga, che decida di iniziare a pagare i debiti dello Stato con le imprese, che ci rappresenti in Europa. Meglio di niente. Insomma i “successi” del governo Letta scaduti i fatidici cento giorni sembrano essere tutti di questo livello: niente di clamoroso , nessuna svolta, ma una consueta ordinaria amministrazione con i soliti decreti legge che trasportano un’infinità di norme di difficile valutazione redatte da una burocrazia ministeriale onnipotente nelle cui mani sarà poi consegnata la loro attuazione. L’effetto annuncio è assicurato; i risultati nessuno li andrà a verificare. Esattamente quel che accade da molti anni: tonnellate di leggi, regolamenti, decreti, circolari che sembrano affrontare ogni più minuto problema, ma che poi non si traducono in miglioramenti sostanziali. La scienza italica del tirare a campare si arricchisce di un nuovo capitolo. Basta agganciarsi ad un’emergenza e il gioco è fatto: si invoca la stabilità e si pratica la conservazione.
In cosa è diverso il governo Letta? Nella maggioranza che lo sostiene no perché è la stessa che sosteneva il governo Monti nato dal fallimento della politica che non ha saputo guidare la crisi succeduta alla caduta del governo Berlusconi alla fine del 2011. L’unica novità è che adesso il Pd e il Pdl guidano direttamente il governo anche questo nato in una situazione di emergenza da un ulteriore fallimento della politica che non ha nemmeno saputo eleggere un nuovo Presidente della Repubblica.
In entrambe le crisi – fine 2011, post elezioni 2013 – determinante è stato il ruolo del Capo dello Stato che ha assunto la veste di suprema guida del Paese, ultima istanza alla quale rivolgersi per dirimere ogni sorta di problema. Lo si è visto anche in questi giorni con gli appelli del Pdl perché Napolitano trovi una soluzione alle condanne di Berlusconi quasi che il Presidente possa agire da costituzione vivente creando nuove norme da imporre al di sopra di quelle esistenti.
Chiaramente l’alleanza Pd-Pdl non ha alcun senso che vada oltre l’emergenza e suscita profondo fastidio ricordare le altisonanti dichiarazioni di quanti, Letta in primis, prefiguravano luminosi destini per un governo che alla prova dei fatti si è avvitato sui reati di Berlusconi e sulle sue esigenze elettorali (vedi IMU) senza nemmeno riuscire ad impostare la riforma della legge elettorale. Sì, profondo fastidio per il politichese da politicanti condito con fiumi di retorica sui “cambiamenti del sistema politico” mentre l’unico provvedimento urgente, la legge elettorale, veniva consapevolmente annegato in un pateracchio di riforme costituzionali con comitati e sottocomitati di saggi in un gioco da illusionisti sperimentato ormai da oltre trent’anni.
In tutto questo gli interessi degli italiani che fine fanno? E chi se ne occupa? Il Pdl è inadatto a governare perché è dominato da una cultura politica da monarchia assoluta che si rivela ogni volta che vengono tirati in ballo gli affari di Berlusconi. Gli interessi generali, le istituzioni democratiche, la politica, lo Stato per quelli del Pdl esistono solo per servire ai loro interessi privati e di gruppo. Non esiste Costituzione, né leggi; loro chiedono il plebiscito del popolo ridotto a folla manipolata (e con il controllo di gran parte della Tv privata e della carta stampata è facile) e poi vogliono fare i comodi loro.
Il Pd sarebbe l’unico partito rimasto dallo sfacelo del passato, ma non è mai nato e appare tonto, ottuso, incerto su tutto, confuso, sbandato. I suoi vertici esibiscono il loro senso di responsabilità come se bastasse a dire chi sono e cosa vogliono. In realtà è solo il sipario dietro cui si cela l’incapacità e la paura di assumere un’identità ben definita fondata su scelte chiare che potrebbero mettere a rischio carriere, posti di lavoro nel vasto mondo che dipende dalla politica, posizioni di potere. Per questo meglio accordarsi con gli avversari che hanno identiche esigenze piuttosto che imboccare strade nuove. Se un partito diventa un ufficio di collocamento per ottenere incarichi ben pagati o che consentono l’avvio di carriere all’ombra della politica perché rischiare? La famosa stabilità di cui tanto si parla, in realtà, è quella di chi vive di politica e grazie alla politica non quella degli italiani.
Il cambiamento da realizzare allora può partire anche da qui: un partito deve identificarsi con un programma e un progetto politico chiaro e su questi si deve mettere in gioco. Non serve a nulla governare senza questi presupposti; di fatto finiscono per governare le tecnocrazie nazionali ed europee e i poteri forti della finanza e dell’economia.
La politica è il modo per costruire il futuro che non esiste già preformato. L’Italia ha mille vincoli – quelli europei, il debito, le arretratezze – ma sopra a tutto ha un deficit di cultura politica e civile. Se questi limiti vengono accettati supinamente non se ne esce. Per questo è necessario che nascano formazioni politiche che, come già successo con il M5S, rappresentino una cultura nuova di protagonismo dei cittadini. Non servono però leader carismatici alla Grillo che poi “naturalmente” vogliono comandare tutti; serve una partecipazione articolata in una rete di luoghi fisici e di percorsi nei quali potersi esprimere e attraverso i quali condividere le decisioni e i controlli sulle politiche pubbliche.
Non si tratta però di qualcosa che riguarda solo gli iscritti ai partiti, ma di una nuova modalità di vivere la democrazia che riguarda tutti. Difficile, ma indispensabile
Claudio Lombardi
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