Come intervenire sulla disuguaglianza
Ho letto con molto interesse lo studio scientifico: “Un modello matematico per la disuguaglianza” (se ne è parlato qui: https://www.civicolab.it/new/un-modello-matematico-per-la-disuguaglianza/). Conferma ciò che già si pensava da tempo e cioè che il libero mercato lasciato a se stesso produce progressivamente forti disuguaglianze. E ci dice che sono indispensabili delle efficaci correzioni delle istituzioni pubbliche per limitarle, non solo per motivi sociali e morali, ma anche economici. Si parla principalmente dello Stato ovviamente.
Anni fa alcune ricerche condotte nel Regno Unito mettevano in evidenza che l’aumento delle diseguaglianze può mettere in crisi le democrazie liberali, ma può rappresentare anche un impedimento determinante allo sviluppo. E caldeggiavano politiche redistributive pubbliche di tipo socialdemocratico tendenti a incrementare il “welfare” nazionale. Non solo, quindi, una redistribuzione di risorse finanziarie, ma di opportunità, quindi di “chances” di vita.
Forse non era un caso il fatto che queste ricerche venissero fatte in un Paese che aveva conosciuto più di altri l’impatto sociale ed economico delle politiche neo-liberiste di Margaret Thatcher, tendenti a limitare l’intervento dello Stato nell’economia ed a smantellare il welfare.

Le politiche neo-liberiste, la cui punta di diamante sul piano culturale era rappresentata dalla “Scuola di Chicago” di Milton Friedman, mentre sul piano politico vedevano nella già citata Margaret Thatcher e nel Presidente americano Ronald Reagan i protagonisti assoluti, hanno incentivato concentrazioni enormi di capitale finanziario in tutto l’Occidente attraverso radicali riforme fiscali a vantaggio dei più ricchi, moltiplicato i consumi su scala planetaria e sottratto agli Stati funzioni e risorse nella regolazione dell’economia e per la redistribuzione della ricchezza.
Lo smantellamento dell’industria mineraria e automobilistica inglese, avvenuto alla fine del secolo scorso, a vantaggio dello sviluppo delle attività finanziarie su scala planetaria, che hanno fatto di Londra una delle più grandi piazze finanziarie del globo, in coincidenza con lo sgretolamento del Welfare negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, è testimoniato dai film di Ken Loach, e da uno sterminato numero di pubblicazioni.
Contemporaneamente anche negli Stati Uniti si è incentivata la finanziarizzazione dell’economia e si è ritratta la presenza dello Stato nelle attività economiche, mantenendo un Welfare minimo (l’Obama-care, deciso più di dieci anni fa da una maggioranza Democratica, ha solo intaccato in misura minima il sistema). Ma è il regime fiscale americano l’esempio più macroscopico dell’assenza di politiche redistributive. La totale assenza di progressività favorisce i ricchi a scapito della classe media e dei poveri. Ed è qui che il “modello matematico” trova la conferma più appariscente.
Ciò che è accaduto in Gran Bretagna e negli Stati uniti si è riverberato su tutti gli altri Paesi del mondo: politiche neo-liberiste ovunque, aumento dei processi di finanziarizzazione dell’economia, perdita di peso della cosiddetta economia reale rappresentata dall’industria e dai suoi lavoratori, aumento esponenziale delle disuguaglianze, indebolimento dello Stato, crisi delle politiche di Welfare, crisi della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto sono fenomeni legati da un filo comune.
Insomma sono prevalse nel mondo occidentale in questi ultimi quarant’anni, e in parte anche altrove, politiche apertamente di destra.

Secondo un grande economista americano, Michael Walzer, le sinistre riformatrici hanno risposto troppo debolmente puntando in prevalenza, laddove era possibile, sulla difesa dei diritti umani e civili delle minoranze. Non abbastanza per contrastare le politiche di destra neo-liberiste. Abbandonando il campo della difesa del lavoro e non difendendo con efficacia il welfare costruito nei decenni precedenti, hanno contribuito a deprimere a livello di massa qualsiasi speranza nel futuro e non hanno posto argini alla stessa crisi demografica e persino alla crisi della stessa democrazia liberale e rappresentativa.
Si è quindi verificato il paradosso che le politiche di destra neo-liberiste che, come si diceva, hanno indebolito le funzioni redistributive dello Stato, hanno fatto nascere, e crescere in modo esponenziale, in assenza di politiche di controtendenza della sinistra, una estrema destra sovranista e nazionalista che risponde all’esigenza che hanno le popolazioni di più Stato e maggiore sicurezza sociale (tralasciamo qui il fatto che l’estrema destra ha deviato il bisogno di sicurezza sociale attestandolo su un terreno diverso: antisemitismo come metafora concreta di una lotta contro il diverso che con la sola sua presenza minaccia una comunità, e lotta all’immigrazione per gli stessi motivi).
Non sembra essere un caso infatti che i Paesi più neo-liberisti in Occidente, Regno Unito e Stati Uniti sono oggi quelli che guidano il drappello delle forze sovraniste istituzionalizzate, con Boris Johnson, teorico e pratico della Brexit, e Donald Trump, leader di “America First”.
La realtà dell’Unione Europea ha complicato il quadro. Come sappiamo il processo di unificazione europea è in mezzo al guado e ancora non si sa se in futuro prevarrà l’idea di una Confederazione di Stati sovrani, o quella di una Federazione. Intanto i poteri istituzionali sono frammentati: gli Stati europei si sono indeboliti più degli altri a livello mondiale e le Istituzioni Europee, emanazione degli stessi Stati dell’Unione, sono limitate nei loro poteri. Mancano a livello europeo una politica estera, una politica di difesa, una politica fiscale , una politica di welfare. Si è in gravi difficoltà ad assumere un comportamento comune sia nei confronti del capitale finanziario, sia nei confronti dei giganti del web.

Il modello matematico mette in evidenza, se lo si vuole leggere con attenzione, che la leva fiscale e le politiche di welfare non bastano ad arginare e correggere la “deriva naturale” dei sistemi verso le disuguaglianze: bisogna che gli Stati e le comunità nazionali (in Europa anche le Istituzioni Comunitarie), sappiano intervenire anche a monte del processo produttivo, cioè sul rapporto tra mercati, mondo bancario e imprenditoria, ed in modo particolare sul rapporto tra imprenditori e lavoratori per una definizione comune dei livelli di produttività del sistema economico. Perché ci sia la possibilità per le forze in campo di ragionare in termini di equa distribuzione delle risorse già nella fase di produzione di beni e servizi.
Si tratta allora di ridefinire al meglio con delle riforme anche il sistema politico della rappresentanza e della partecipazione popolare e la questione dei cosiddetti “corpi intermedi” (sindacati, associazioni, ecc.). E, per quanto ci riguarda, si tratta anche di rivedere il processo di unificazione europea in modo da renderlo più spedito e meglio definito negli approdi finali.
Sarebbe bene che le sinistre e tutte quelle forze che si ritengono liberali e democratiche in Europa, ma anche in U.S.A. (ci sono le elezioni presidenziali a fine anno), prendessero seriamente in mano questo modello matematico ed affrontassero tutti i ragionamenti conseguenti, quindi sul piano pratico le riforme necessarie, dentro una visione finalmente “di sistema”, che comprenda anche un’idea praticabile di “sviluppo sostenibile” (clima, passaggio graduale dall’uso degli idrocarburi come fonti energetiche, a fonti rinnovabili, introduzione di politiche che modifichino l’esasperazione consumistica) per non continuare ad essere prese dentro una tenaglia micidiale costituita dalle politiche neo-liberiste di una certa destra e le dilaganti risposte sovraniste della destra estrema, che qui in Europa ha assunto un volto veramente inquietante.
Lanfranco Scalvenzi
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