Dal decreto dignità alla disoccupazione
Era l’estate del 2018 e il Governo Lega-M5S viaggiava con il vento in poppa. Li ricordate? Volevano cambiare l’Italia, rivoltarla e colpire duro contro i vecchi partiti e contro le vecchie leggi e, soprattutto, sul lavoro avevano deciso di colpire durissimo. Volevano sconfiggere la Legge Fornero con la quota 100 e abolire la povertà con il Reddito di cittadinanza, far diventare i riders dipendenti e garantire ai giovani italiani un lavoro (“prima gli italiani in ogni cosa!” si diceva). Tutto sembrava di facile soluzione: una legge e via!
Quota 100? Si libereranno tanti posti per i giovani (ipotesi miseramente fallita). Reddito di cittadinanza? Bastava mettere tutto in mano ai navigator e le proposte di lavoro sarebbero arrivate a valanga (è finita che i navigator sono stati pressoché gli unici a trovare lavoro). Fine della precarietà? Bastava un severo “decreto dignità” e si sarebbero tagliati i contratti a termine per vederli trasformati tutti a tempo indeterminato.
A posteriori sappiamo che non è andata così nel primo, nel secondo e anche nel terzo caso. Volendo soffermarci sui contratti a termine ricordiamo che con la Legge 96/2018 si è deciso di limitarne la durata a 12 mesi (dai 36 precedenti) e senza rinnovi salvo il caso di ricorrere alle motivazioni previste dalla legge che nessuno usa perché molto complesse e difficilmente applicabili. Il legislatore (cioè il governo) ha volutamente spinto per limitare i contratti a termine ad uno solo di 12 mesi.
L’intenzione era quella di combattere la precarietà. L’effetto è stato quello di aumentare il lavoro nero e la disoccupazione. Sono i numeri a dirlo con una netta diminuzione del numero dei contratti a termine stipulati e con la mancata trasformazione di questi in contratti a tempo indeterminato. Intervenire in una realtà complessa come quella del mercato del lavoro armati di buone intenzioni e di rigidità non si è rivelata una scelta vincente.
La pandemia ha aumentato le difficoltà sferrando un altro pesantissimo colpo ai lavoratori con contratto a termine, i quali, non protetti dalla norma sul blocco dei licenziamenti, hanno visto i loro contratti semplicemente…….morire. Il governo ha provato a porre rimedio a questa situazione con il DL 104/2020 del 14/8 che deroga al Decreto Dignità permettendo la proroga dei contratti a termine per 1 sola volta fino ad arrivare al limite dei 24 mesi senza dover inserire alcuna causale. Questo, però, vale per quest’anno. Dal prossimo si ritorna alla rigidità del decreto dignità. Se si considera che terminerà la protezione del blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione la situazione dei lavoratori sarà molto critica.
Come si è detto, a volte le migliori intenzioni non trovano la strada giusta per realizzarsi. Così la dignità del lavoratore rischierà di tradursi nel “non lavorare” o nel piegarsi al lavoro nero (incentivati in ciò dal reddito di cittadinanza) e non in quella di avere comunque un contratto.
Si manifesta così un problema culturale di fondo. Per alcuni basta una legge per modulare l’offerta di lavoro e i relativi contratti. Una visione schematica che non funziona. La realtà non è così semplice e, in generale, bisogna dire che è meglio avere un lavoro piuttosto che essere disoccupati ed è molto meglio che questo lavoro sia regolare e contrattualizzato (anche con un contratto a termine che garantisce tutti i diritti del lavoro a tempo indeterminato) piuttosto che essere irregolare. Aver preso i contratti a termine come obiettivo della lotta alla precarietà si è tradotto in una spinta a non assumere se i 12 mesi venivano ritenuti insufficienti dalle aziende per sperimentare un giovane in una qualifica medio alta. Di conseguenza le assunzioni a termine si sono concentrate sulle qualifiche medio basse per le quali c’è meno formazione e il ricambio di personale impatta meno sull’organizzazione aziendale.
Da sempre restare più a lungo dentro una azienda rende più facile per il lavoratore diventare importante e necessario e quindi confermabile con un contratto a tempo indeterminato. Per questo 36 mesi di durata massima dei contratti era un tempo corretto non a caso pari a quello dei contratti di apprendistato. Purtroppo a volte i politici tentano di forzare le cose credendo di aver trovato la soluzione giusta con i divieti e i rigori della legge. Salvo poi accorgersi che gli effetti hanno peggiorato la situazione che si voleva correggere
Alessandro Latini consulente fiscale e del lavoro
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