Il lavoro che manca e il lavoro mancato: un’analisi parziale

Sono anni ormai che due titoli si contrappongono nei notiziari: 1° manca il lavoro; 2° il lavoro c’è, ma i giovani non vogliono lavorare. Proviamo a fare chiarezza seguendo il ragionamento di Carlo Canepa che ha scritto su questo un lungo articolo per www.valigiablu.it

Il primo punto è capire se i numeri riportati dai giornali su centinaia di migliaia di posti di lavoro liberi sono corretti. Secondo il bollettino di giugno di Unioncamere realizzato insieme all’Anpal, in questo mese sarebbero previste oltre 560 mila «entrate» tra gli occupati, di cui oltre 167 mila riguardanti i giovani. Inn realtà si tratta delle intenzioni dichiarate dalle imprese e non di vere e proprie posizioni lavorative aperte.

Prendendo le statistiche pubblicate da Istat che fanno riferimento alle reali ricerche di personale avviate dalle aziende e che utilizzano una metodologia condivisa a livello europeo, nei primi tre mesi del 2021 la percentuale di posti vacanti sul totale degli occupati in Italia era di circa l’1%: un numero pari a circa 230 mila posti di lavoro.

Secondo Andrea Garnero, economista del lavoro dell’Ocse, « un 1% di posti vacanti non segnala nulla di particolarmente strano rispetto al passato ed è una delle percentuali più basse a livello europeo». In sostanza per Garnero l’1% è un dato fisiologico.

Un altro dato Canepa lo desume da un articolo pubblicato a febbraio su www.lavoce.info , scritto dall’esperto in sociologia del lavoro Francesco Giubileo. Sarebbero 40 mila le opportunità di lavoro individuate in un’indagine su oltre 300 mila imprese contattate dai navigator (le figure che aiutano i percettori del reddito di cittadinanza a trovare un’occupazione).

“Mettere in chiaro questi numeri non vuol dire sminuire la possibilità che nel periodo attuale, con le ripartenze dopo le chiusure e l’arrivo della stagione estiva, diverse attività – come quelle della ristorazione e del turismo – fatichino davvero a trovare nuovi dipendenti” chiarisce Canepa. Ma il reddito di cittadinanza, non è la spiegazione principale.

Per Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt (studi e ricerche sul lavoro), “c’è stata molta incertezza negli ultimi mesi, quindi probabilmente le imprese hanno aspettato a programmare le assunzioni, poi la situazione si è sbloccata e si è creato una sorta di “collo di bottiglia”, con un’incapacità di rispondere all’improvvisa richiesta di assunzioni”. Ha anche pesato l’assenza di un sistema di servizio per il lavoro che aiuti l’incontro tra la domanda e l’offerta. Però c’è anche dell’altro per Seghezzi: “Tante offerte di lavoro, soprattutto per gli impieghi meno qualificati, sono ambigue, e magari non vengono riportate nei portali ufficiali di ricerca del lavoro, perché offrono pochi euro a fronte delle tante ore di lavoro richieste».

Entra in campo una questione cruciale e dirimente: gli stipendi troppo bassi, orari di lavoro pesanti, poche tutele. Che in Italia le retribuzioni siano basse è un dato acquisito. Così come lo sono le aspirazioni di giovani ai quali una scolarizzazione comunque più elevata del passato ha fatto immaginare traguardi più ambiziosi di quelli che vengono proposti. C’è poi la questione delle competenze che è un altro dato ben noto della situazione italiana.

Spiega Garnero: «L’Italia ha sia lavoratori sottoqualificati sia una bassa domanda di competenze. C’è un equilibrio al ribasso, dove il 6% degli italiani ha competenze insufficienti per le mansioni che deve svolgere, il 18% possiede un titolo di studio inferiore rispetto a quello richiesto dalla sua professione, ma sappiamo anche che il 35% lavora in un settore che non corrisponde alla sua area di studio, in particolare per le materie umanistiche. Una grossa fetta delle imprese è poi gestito a livello famigliare, con pratiche manageriali non delle più innovative e al passo con i tempi».

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza Canepa raccoglie il parere di Francesca Coin, docente in sociologia alla Lancaster University, nel Regno Unito. «Dagli anni Settanta si è costruita una lotta contro i sussidi, soprattutto quando si parla di sussidi ai poveri. Da Reagan e Thatcher, negli ultimi cinquant’anni ci sono stati forti politiche di smantellamento di sussidi che all’inizio erano permanenti e poi sono diventati temporanei, e di riduzione del numero di persone che possono avervi accesso”. Il reddito di cittadinanza “va a intaccare un principio morale, ma anche economico, basilare in una struttura sociale come la nostra, che è quello del vincolo al lavoro. Ossia l’idea che ci debba essere un obbligo a lavorare per vivere, anche quando il lavoro non c’è».

Secondo Coin, «in Italia stiamo vivendo un abuso di questa narrazione, che ha una finalità precisa: mistificare le ragioni dell’elevata disoccupazione in Italia. Sarebbe troppo onesto, e anche troppo rischioso, dire che da trent’anni c’è una politica di smantellamento del tessuto produttivo italiano. Piuttosto che affrontare questo tema, fa più presa dire che: “I giovani non hanno voglia di lavorare”, e che “non hanno voglia di lavorare, a prescindere dai bassi salari”. È una sorta di elogio mascherato allo sfruttamento».

Anche sui numeri si appunta la critica di Canepa. Secondo i dati più recenti dell’Inps, nel periodo tra gennaio e aprile 2021 l’importo medio mensile del reddito di cittadinanza è stato di circa 580 euro, ma il valore medio del reddito di cittadinanza per i nuclei composti da una sola persona – senza minori a carico – è invece di circa 450 euro. Troppo poco per competere con un salario decoroso.

È ancora la questione degli incentivi ad essere tirata in ballo da Seghezzi. “Un effetto  non penso lo stia avendo il reddito di cittadinanza, ma gli incentivi ai lavoratori stagionali che stanno arrivando in questi giorni e che fanno riferimento a periodi passati”. Un altro effetto “potrebbero averlo le nuove regole per la Naspi, ossia l’indennità mensile di disoccupazione, che ora ha un accesso più facile e non ha più la riduzione mensile del 3% dopo il quarto mese di fruizione”.

Per Garnero “ci può essere qualcuno che si accontenta solo del reddito di cittadinanza, ma non credo proprio sia la maggioranza. Così come ci sono altri che, invece, cercano occupazione, che, ricordiamo, non può ridursi solo alla dimensione della retribuzione”. Il punto cruciale, tuttavia, è che “il welfare italiano non è disegnato per aiutare chi cerca lavoro. Per esempio, in cassa integrazione è vietato lavorare”.

Ricorda Canepa che, per non vedersi togliere il beneficio, il percettore del reddito di cittadinanza – che ha sottoscritto il Patto per il lavoro – deve accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue, stabilite in base alla coerenza tra l’offerta di lavoro e le esperienze e competenze maturate; la distanza del luogo di lavoro dal domicilio e i tempi di trasferimento con mezzi di trasporto pubblico; e la durata dello stato di disoccupazione.

Tuttavia sul fronte delle politiche attive del lavoro “il reddito di cittadinanza è stato un fallimento” ed ha pure diversi limiti come misura di contrasto alla povertà, dal momento che discrimina le famiglie straniere e quelle con minori, a vantaggio dei single.

La definizione più precisa (ed inquietante) è di Francesca Coin: “Il reddito di cittadinanza andrebbe riconcepito (….)come misura che svincoli dal lavoro”.

Sul fronte delle politiche attive del lavoro Canepa ricorda che il PNRR destina a questa finalità 6 miliardi di euro. Si tratta essenzialmente di “formazione professionale, supportando i percorsi di riqualificazione professionale e di reinserimento di lavoratori in transizione e disoccupati (percettori del reddito di Cittadinanza, Naspi e Cigs), nonché definendo, in stretto coordinamento con le Regioni, livelli essenziali di attività formative per le categorie più vulnerabili”.

Per Garnero “le questioni principali sono quelle organizzative, che riguardano i centri per l’impiego. C’è poco personale, e spesso non dedicato a chi cerca lavoro. E c’è anche un aspetto culturale: in Italia non c’è l’abitudine di rivolgersi ai centri per l’impiego, o almeno meno di altri paesi, né dal lato di chi cerca lavoro né dal lato di chi offre lavoro”.

In conclusione si ha l’impressione che il lungo articolo di Canepa non fornisca tutti gli elementi per rispondere all’interrogativo sulla contraddizione tra offerta e domanda di lavoro che non combaciano. Molta attenzione alla difesa dei sussidi e poca ai motivi per i quali non poche professionalità che richiedono una formazione tecnica mancano sul mercato del lavoro. Vuol dire che cercheremo altrove le risposte

Claudio Lombardi

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