Il piano di rinascita e i troppi annunci

“Questa crisi deve essere l’occasione per rinnovare il Paese dalle fondamenta, per superare tutti quei problemi strutturali che si trascinano da tempo”. “Ci rendiamo conto dei ritardi, ci rendiamo conto che ci stiamo confrontando con una legislazione e un apparato statuale che non era affatto pronto”. Difficile non essere d’accordo col Presidente del Consiglio che ha pronunciato questa frasi nella sua ultima conferenza stampa. Ha annunciato l’intenzione del governo di presentare proposte di riforma per un piano di rinascita del Paese. Benissimo, questo è il momento giusto. Il coronavirus ci ha messo di fronte ad una verità inconfutabile: l’Italia così non può più andare avanti.

Questione di soldi? Anche, ma non solo. La situazione paradossale nella quale ci troviamo è che l’Italia avrebbe bisogno di maggiori risorse, ma quelle che ha non riesce a usarle bene. Avrebbe certamente bisogno di incassare e guadagnare di più facendo pagare le tasse a tutti e aumentando la produttività di sistema senza ricorrere sempre al debito. Ma i risultati stentano comunque ad arrivare e i ritardi sono cronici. La spesa diventa spreco non solo quando è sbagliata o è piegata ad interessi particolari, ma anche quando non corrisponde più agli obiettivi ai quali è stata destinata per il tempo che è trascorso.

Siamo di fatto nella fase 3 dell’emergenza coronavirus e possiamo dire che il momento più tragico è alle nostre spalle. Gli interventi di sostegno economico, invece, sembrano ancora fermi alla fase 1. Decisi a marzo e aprile non sono ancora partiti al 100%. Si discute tuttora di Cassa integrazione che non viene pagata e di prestiti di emergenza alle imprese arrivati solo in minima parte. Con l’ultimo decreto “Rilancio” si è cercato di porre rimedio ai ritardi potenziando il sostegno, ma con alcune misure discutibili come il taglio dell’Irap a tutte le imprese sia che abbiano perso per la chiusura, sia che abbiano lavorato e guadagnato di più. Oppure come la statalizzazione di Alitalia ennesimo tentativo di rimetterla in piedi con i soldi pubblici. O anche come il bonus fiscale del 110% per i lavori di efficientamento energetico e antisismici (un implicito invito a gonfiare i prezzi grazie alla collusione tra committente e chi esegue i lavori, tanto paga lo Stato). Di rilancio però non vi è traccia. I nomi dei provvedimenti scelti dal governo indicano sempre un passo avanti che deve ancora arrivare mentre quelli precedenti sono ancora lontani.

Il governo è responsabile di tutto ciò che è andato storto? Formalmente sì. Sostanzialmente no. I problemi strutturali ai quali ha accennato Conte sono veri e sono fatti da un intreccio di ruoli, interessi, obiettivi e prassi difficile da districare. Nessun governo ci ha mai provato perché lentezza e sprechi dello Stato frenano lo sviluppo, ma costituiscono anche la base del potere. La spesa pubblica è indispensabile, ma quando è piegata ad interessi particolari (di qualunque tipo siano) diventa una palla al piede che abbassa la produttività del sistema.

Problemi di burocrazia. Sì, certo, ma fanno un po’ rabbia quei politici di lungo corso che magari sono a capo di partiti che hanno governato per lunghi anni, che lanciano proclami contro la burocrazia. L’esempio che va di moda oggi è l’ultimo decreto (Rilancio) con le sue centinaia di pagine infarcite di riferimenti normativi che solo chi li ha scritti riesce a comprendere. Perché stupirsi? È questa la normalità del modo di legiferare da sempre. Oggi si invoca la semplificazione. Non è una novità. Dieci anni fa era ministro della semplificazione Calderoli della Lega. Magari qualcosa avrà fatto, ma non sembra che abbia risolto granchè.

Come ha detto Conte, “questa crisi deve essere l’occasione per rinnovare il Paese dalle fondamenta”. Vasto programma che non costa zero.

È stato calcolato che all’Italia servono 50 miliardi da qui all’autunno, per salvare l’economia e cioè il tessuto produttivo e distributivo. E per salvare le persone. Il rischio è che tra qualche mese le imprese inizino a chiudere definitivamente con effetti devastanti su produzione, lavoro e reddito. Il Governatore della Banca d’Italia ha previsto un calo del Pil del 13% quest’anno. Un colpo terribile se si pensa che fino all’anno scorso si considerava non sufficiente una crescita dell’1%.

Ma dove andare a prendere tutti questi soldi in tempi così ristretti? Mario Draghi per primo lo ha detto, tutti gli organismi europei e i leader lo hanno ripetuto: fate debito, spendete, non è questo il momento per risparmiare, la spesa pubblica colmi i vuoti. E così è stato fatto: la BCE si è messa a comprare titoli pubblici e obbligazioni private a ritmi mai conosciuti prima d’ora; sono stati eliminati tutti i limiti ai deficit pubblici; via il Patto di stabilità; è stato varato un pacchetto di misure europee composto di prestiti ed erogazioni a fondo perduto che va sotto le sigle Mes, Sure, Bei, Recovery Fund.

L’acquisto di titoli da parte della BCE (ulteriormente potenziato con le ultime decisioni annunciate dalla Lagarde) porterà nelle casse dello Stato italiano una cifra che è stata calcolata pari (o forse superiore) all’ammontare del maggior deficit di bilancio per il 2020. Il Mes potrebbe erogare subito fino a 37 miliardi di euro per spese sanitarie connesse alla pandemia a un tasso negativo o pari a zero per un decennio. Il Sure interverrebbe con le stesse modalità nel campo delle integrazioni salariali, ma dopo l’estate. La Bei presterebbe denaro alle piccole e medie imprese nello stesso arco di tempo. Infine il Recovery Fund anzi, il Next Generation Fund, che ha tempi più lunghi e partirebbe nel 2021 per durare fino al 2026, porterebbe all’Italia, tra prestiti e contributi, oltre 170 miliardi di euro. E poi, ovviamente, c’è il debito collocato sul mercato, ma i tassi dei titoli italiani sono tra i più alti in Europa, tra l’1,5 e il 2 per cento dunque tutti gli altri prestiti garantiti da organismi europei sono nettamente più convenienti.

Disporre di 50 miliardi veri in pochi mesi non è comunque un obiettivo impossibile a patto di essere concreti. Le polemiche sul Mes ad esempio bisogna metterle nel secchio della spazzatura. Le “dotte” dissertazioni di chi diffida per principio sono diventate stucchevoli e insopportabili. Che si avvii la trattativa sulla base delle decisioni prese dai governi e poi con i testi scritti si decida.

La sfida più grande, però, è quella di mettersi in grado di spenderli i soldi senza disperderli in mille rivoli inconcludenti. Si sa che il ministro della salute Speranza ha già predisposto un piano per la sanità di ben venti miliardi di euro. È l’esempio di come bisogna procedere. Da anni si discute di programmi  e ormai i centri di elaborazione più avanzati convergono nell’indicare le stesse tipologie di interventi (infrastrutture fisiche e digitali, istruzione e ricerca, risparmio energetico, messa in sicurezza del territorio). Ma, se si cominciasse sbloccando le opere pubbliche già decise e finanziate, e se si liquidassero tutti i debiti dello Stato con le imprese si avrebbero effetti economici immediati.

La sede per discutere di un piano di rinascita è il Parlamento e ha fatto bene Conte ad annunciare l’immediato avvio di un confronto con le parti sociali che deve precedere il dibattito parlamentare.

La fase dell’individuazione dei problemi è finita da tempo. Ora bisogna passare all’azione combinando gli interventi ad effetto immediato che ancora tardano con quelli strutturali. Il tempo per farlo è adesso

Claudio Lombardi

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