La banda larga che ci manca
Ora che l’odioso virus ci ha dato “quattro schiaffi di materialismo”, per riprendere un’efficace invettiva di Franco Fortini, la realtà ci appare più nitida. Uno dei ceffoni riguarda sicuramente il tema della rete in banda larga e ultralarga. L’Italia ha intere zone non coperte da una tecnologia ormai molto matura e si colloca con qualche ignominia al penultimo posto in Europa. Le aree non raggiunte dalle fibre ottiche vengono chiamate nella terminologia burocratico-ufficiale “a fallimento di mercato”. Già. Perché nell’antica accezione liberista la comunicazione coincide meccanicamente con il suo risvolto commerciale.
Lo storico digital divide, che ora si sposa con la logica oligarchica e proprietaria degli Over The Top (cui viene persino delegata la raccolta dei dati sensibili per frenare la pandemia) ha mostrato chiaramente quali effetti comporta. Un fondamentale diritto di cittadinanza è dimezzato.
I programmi di educazione a distanza (e-learning) vacillano sia per i buchi nella copertura sia per la carenza dei supporti adeguati tra le stesse generazioni interessate. Per non dire delle difficoltà degli insegnanti a cimentarsi, spesso all’improvviso. con modalità tecniche non adeguatamente padroneggiate. E non per colpa soggettiva, bensì per l’assenza di un piano generale.
Il mitizzato smart working (il lavoro a distanza) sbatte la testa contro il solito buco (voragine?) e con la forte arretratezza delle direzioni aziendali.
Ma il capitolo della capacità di banda arriva al cuore del contrasto al virus. La telemedicina ha oggi potenzialità enormi, che rischiano di essere utilizzate a scarto ridotto.
Insomma, il dramma ha fatto venire allo scoperto danni ed aporie del digitale all’italiana. Vale a dire il passaggio alla tecnica numerica immaginato negli anni novanta del secolo scorso come un mero affare televisivo. E’ fin troppo noto che la corsa alle straordinarie opportunità offerte dalla scienza fu indirizzata verso i bisogni della televisione generalista, in cui faceva il bello e il cattivo tempo l’impero berlusconiano. Per far quadrare i conti della timidissima normativa antitrust introdotta dalla legge 249 del 1997 e salvare “Retequattro” era indispensabile aumentare il numero dei canali.
Mancò, dunque, una linea strategica, a partire da altri baricentri: la pubblica amministrazione, la scuola e l’università. Solo attraverso un’iniziativa pervasiva e battente nell’universo statuale (centrale e decentrato), come vera agenzia di formazione e sviluppo, si sarebbe messa fuoco la medesima questione della “rete pubblica”. Se ne parla da anni, ma senza una chiara prospettiva.
L’errore risale alla stessa stagione “pan-televisiva”. “Stet-Telecom” fu privatizzata malamente, mentre l’infrastruttura poteva (e doveva) rimanere un bene comune. Quella “stecca” originaria ce la portiamo avanti ancora oggi, malgrado il tentativo in extremis fatto dal secondo governo Prodi. Che non andò in porto. E ora siamo alla mercé di una infinita trattativa tra una Tim pur corroborata dal fondo “Kkr” (insieme a Vivendi, a Elliot e a Cassa depositi e prestiti) e una “Open Fiber” (con capitali di Enel e della stessa Cassa depositi e prestiti) che ancora non pare aver deciso che fare.
Insomma, è serio che il traguardo decisivo della copertura con una banda unitaria capillare e installata fin dentro le abitazioni dei cittadini sia una mera trattativa privata?
E’ vero che il recente decreto del governo “Cura Italia” riduce i tempi regolamentari, ma urge proprio quello che si chiama “cambio di paradigma”. Ed ecco una priorità.
Vincenzo Vita
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