L’emergenza coronavirus e la presa di coscienza
Mentre la reazione di tanti italiani (non certo il 100%, ma una maggioranza sì) sorprende per compostezza e disciplina nel rispetto di regole pesanti delle quali, però, viene avvertita la necessità è anche necessario fare qualche riflessione su come siamo arrivati all’appuntamento con l’emergenza coronavirus. Sia chiaro: non si tratta di darci addosso, ma di riconoscere errori che è bene non ripetere.
Il punto di partenza è la consapevolezza che il presente derivi dal passato. Sembra un’affermazione banale, ma non lo è. Il “presentismo” cioè la mancanza di memoria storica e di comprensione critica, accompagna il dibattito pubblico, la comunicazione politica e forma l’opinione dei cittadini molto più di quanto si possa immaginare. Ma va anche al di là di queste dimensioni perché rappresenta uno dei principi sui quali si formano la coscienza e la cultura dei giovani. Che poi diventa quella prevalente. Gli adulti, infatti, non sempre riescono a trasmettere un approccio diverso e a volte inseguono i giovani per imitarne comportamenti e stili di vita.
Cosa combina il “presentismo”? Offusca la catena di responsabilità che sono parte essenziale della vita delle persone e degli stati: se io mi comporto così e faccio questa scelta devo anche immaginare e mettere in conto le conseguenze. Tutto sommato molto semplice.
E, dunque, se il problema principale che abbiamo di fronte adesso è quello della sanità. Se in Lombardia si è vicini al collasso. Se comincia a farsi strada il terrore che il contagio si diffonda nella stessa dimensione al centro e al sud. Se siamo a questo punto è inevitabile porsi alcune domande e ripensare alle scelte del passato.
Il primo nodo è l’assetto istituzionale. Se il governo ha tentennato all’inizio della crisi nell’assumere la guida del Servizio sanitario nazionale che gli spetta in caso di epidemia è perché la sanità da molti anni dipende quasi esclusivamente dalle regioni. Lo Stato ci mette i soldi e fissa livelli minimi delle prestazioni. Il resto lo decide la singola Regione. E, quindi, come sta capitando adesso, se una giunta regionale decide di imboccare una strada non può essere fermata. È un bene o un male? Sicuramente avere venti sistemi sanitari diversi non è un bene, ma nemmeno lo sarebbe una gestione tutta centralizzata. E’ un problema di senso dello Stato, di cultura politica e civile. Non è difficile ritrovare nel recente passato una duplice tendenza: da un lato l’autonomia regionale vista come leva per la disgregazione dell’unità nazionale; dall’altro l’autonomia usata a tappeto per la crescita di una classe dirigente alimentata dal denaro pubblico. In campo sanitario per esempio il dato eclatante è quello del “turismo sanitario” dal sud al centro-nord. Per molti anni si è fatto finta di non vedere l’enorme sproporzione nella qualità dell’assistenza e nei finanziamenti che oggi si rischia di pagare molto care. Altro dato eclatante la crescita dei servizi privati di cura che hanno tappato i buchi della sanità pubblica. Gratis? No: in parte pagati dallo Stato e in parte dagli assistiti.
Nel corso dei decenni il Fondo sanitario nazionale è sempre cresciuto. Si dice, meno di quanto avrebbe dovuto in base all’inflazione, all’invecchiamento della popolazione e al costo delle cure. D’accordo, ma l’autonomia regionale ha sempre compiuto le scelte migliori in nome della qualità e dell’uso appropriato delle risorse? C’è da dubitarne perché i politici regionali e le burocrazie da loro dipendenti si sono trovati a gestire molto soldi pubblici e molto personale prescindendo da una responsabilità politica diretta in materia fiscale. I contribuenti pagavano imposte e tasse allo Stato, la spesa veniva fatta dalle regioni. Senza alcun controllo sostanziale sulle scelte fatte con i fondi regionali. D’altra parte le cronache giudiziarie sono piene di scandali che hanno colpito la sanità. Da nord a sud c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Come scrive in un graffiante articolo sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia “adesso, ma solamente adesso, forse ci si accorge in Puglia che era meglio comprare qualche respiratore in più per gli ospedali e dare qualche euro in meno ai festival della «pizzica», o in Basilicata che con le royalties del petrolio conveniva costruire qualche grande ed efficiente centro ospedaliero piuttosto che disseminare la regione di piscine e palazzetti dello sport. Così come forse adesso ci si accorgerà, in Sicilia, che sarebbe stato meglio coprire i deputati e gli alti funzionari della regione con un po’ di soldi in meno ma cercare di assicurare la sopravvivenza di qualche siciliano in più”. Chiaro, no?
Cambiamo settore e guardiamo alle carceri teatro di una rivolta che ha prodotto molti morti soltanto qualche giorno fa. Se ne è occupato questo articolo https://www.civicolab.it/new/carceri-italiane-un-sistema-malato/. Rinviando al link per un’analisi più ponderata non si può non osservare che il sovraffollamento dura da decenni. Sarebbe bastato impostare un piano carcerario venti o trenta anni fa e realizzarlo un passo alla volta per avere oggi carceri adatte agli esseri umani. Oggi si discetta se i carcerati abbiamo tre metri quadri a testa o meno. Alla pena si aggiunge una condizione bestiale. Attenzione, è una questione che non ha colore politico. Da un governo all’altro un piano così doveva andare avanti a tutti i costi. È stato fatto? È evidente di no.
Stesso discorso per gli edifici scolastici. Ogni anno vengono prodotti rapporti (da Cittadinanzattiva e da altre associazioni o centri di ricerca) che fotografano una situazione di degrado e di pericolosità. Da quanti anni? Abbastanza per impostare e gestire un piano di interventi radicali. Lo si è fatto? No.
E il peso della burocrazia? Sono anni e anni che si dice di volerlo ridurre e, invece, è sempre aumentato.
L’elenco potrebbe continuare e non cambierebbe la sostanza. Ma la domanda centrale è: quanta importanza hanno dato gli italiani a questo deficit di capacità di guida della classe dirigente? La risposta è evidente: poca.
Ancora una citazione dall’articolo di Galli della Loggia: “la verità è che agli italiani più che la possibilità di contare su reti di servizi efficienti, su prestazioni dagli standard adeguati, in tempi rapidi e in sedi attrezzate e accoglienti, più di questo è sempre importato avere dallo Stato un’altra cosa: soldi. Soldi direttamente dalle casse pubbliche alle proprie tasche. Aumenti di stipendio, pensioni di invalidità fasulle, baby pensioni, cassa integrazione, regalini di 80 euro, reddito di cittadinanza, sussidi e agevolazioni più varie alle imprese: sotto denominazioni le più diverse purché si trattasse di soldi da spendere come a ognuno faceva comodo. In omaggio a un welfare modellato fin dall’inizio su erogazioni dirette ai singoli. Anche perché spesso proprio il tipo di procedure per concedere tali erogazioni (vedi pensioni d’invalidità) ha consentito alla politica, ai singoli politici, di servirsene per acquisire il consenso dei beneficati”.
Possiamo in tutta coscienza smentire questa analisi? Non credo.
E allora veniamo al discorso delle conseguenze. Se oggi ci accorgiamo che il Servizio sanitario nazionale ci salva la vita perché non abbiamo giudicato i politici innanzitutto sulla loro capacità di prendersene cura insieme a tutti gli altri beni pubblici? Perché abbiamo sempre privilegiato una visione di corto respiro (i soldi in tasca, i favori, un posto di lavoro clientelare, le illusioni seminate dai demagoghi) ad una che guardasse più avanti e più nel profondo?
Nessuna colpa. Semplice consequenzialità. Se una classe dirigente è inadeguata deriva anche dalla sensibilità politica e dalle scelte degli elettori. Bisogna tenerne conto.
Adesso siamo in emergenza e tanti italiani rispettano l’isolamento sociale, stanno a casa e riscoprono il senso di un affetto per il proprio Paese che non è esattamente una caratteristica della nostra cultura popolare. Sventolano tricolori dai balconi e dalle finestre. Si canta, si diffonde musica da un palazzo all’altro, si applaude al personale della sanità. È la scoperta emozionante di essere parte di una collettività nella quale si conta come individui, ma anche insieme agli altri. È anche la scoperta di cosa significa essere una nazione: le persone, i luoghi, le culture, il genio che insieme si riesce ad esprimere.
È una presa di coscienza che ci potrebbe cambiare nel profondo
Claudio Lombardi
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