La Commissione europea all’attacco sugli imballaggi

Un articolo di Antonio Massarutto tratto da www.lavoce.info

(Sugli imballaggi vedere anche https://www.civicolab.it/fare-a-meno-degli-imballaggi-alimentari-in-plastica/)

Sintesi: La Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento sugli imballaggi che prevede un complesso pacchetto di misure. Forse sarebbe stato meglio fissare un target di riduzione e lasciare i paesi liberi di scegliere come raggiungerlo.

Il pacchetto di proposte

La Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio che, in nome dell’economia circolare e della gerarchia dei rifiuti, prevede un complesso pacchetto di misure che va dall’obbligo di etichettatura a quello di includere una frazione di materiali di riciclo nei prodotti nuovi, dall’obbligo di rendere riciclabili o compostabili tutti gli imballi alla definizione di precisi standard di riciclabilità, fino alle tre previsioni più controverse: bando agli imballaggi monouso “non necessari”, target quantitativi di riuso e riutilizzo, con l’introduzione obbligatoria di sistemi di vuoto a rendere e di vendita di prodotti sfusi, target di riduzione complessiva degli imballaggi messi in commercio. Si stabiliscono obblighi – da assolvere entro il 2030-2040 – di impiego di contenitori ricaricabili (dallo stesso consumatore) o riutilizzabili (previo ricondizionamento, lavaggio o altro) per chi somministra bevande calde e fredde o cibo da asporto, per chi mette in vendita bibite di vario genere (dalla Coca Cola allo Chateau Lafite), nonché per una serie di imballi intermedi (spiccano i target del 90 per cento di contenitori riutilizzabili per i venditori di elettrodomestici o per i pallet e le intercapedini antiurto). Quanto agli imballaggi “non necessari”, a identificarli provvederà una specie di “lista di proscrizione” emanata a livello europeo e valida da Capo Nord a Lampedusa.

Il “modello unico” che danneggia l’Italia

La proposta ha suscitato una vasta eco e mobilitato un ampio fronte di protesta. Oltre agli aspetti pratici, si rimarca anche l’impronta fondamentalmente dirigista e basata su una sorta di “modello unico”, invariabilmente nordeuropeo, che penalizza in particolare quei paesi come l’Italia che invece nel tempo hanno conquistato una solida posizione nell’industria del riciclo.

Le nuove regole, infatti, andrebbero a scardinare un modello di economia del riciclo che ha raggiunto livelli invidiabili di efficienza, costringendoci ad abbandonare sistemi rodati di raccolta differenziata e recupero di materia per sostituirli con sistemi di vuoto a rendere, dispenser di prodotti sfusi e altre soluzioni tutte da inventare.

Ma le conseguenze non sarebbero meno gravose per i cittadini, cui si chiede di dedicare un tempo imprecisato a lavare e tenere in casa imballaggi usati, restituire bottiglie vuote, girare carichi di contenitori ogni volta che escono a fare la spesa, rinunciare a tutte le comodità che l’imballaggio consente (fare la spesa meno spesso, conservare i cibi più a lungo, proteggerli da urti e ammaccature, ordinare pasti a domicilio, comprare cibi già porzionati, mondati e lavati).

A chi immette sul mercato i prodotti imballati si richiede poi la messa in opera di una rendicontazione kafkiana e un apparato di controllo a dir poco orwelliano, con tenuta di registri per dare conto della quantità di prodotto erogato (per esempio, gli ettolitri di caffè somministrati da un bar in un anno, o di vino venduti da un’enoteca) e quanto di questo è stato venduto utilizzando involucri riutilizzabili, tenendo conto di quante volte ciascun contenitore verrà effettivamente riutilizzato.

L’obbligo grava infatti su ciascun esercente (con la sola esenzione delle microaziende e dei punti vendita di superficie inferiore ai 100 mq), ma potrà essere assolto anche “per conto terzi”, ossia riconsegnando l’imballaggio ad altri soggetti. Ne deriva non solo l’esigenza di un sistema centralizzato di controllo, ma anche quella di standardizzare i recipienti utilizzati, andando a normare forma e dimensione di bottiglie, vasetti di yogurt, cassette per la frutta e mille altre cose.

I risultati ambientali

Una simile rivoluzione potrebbe giustificarsi, al limite, se consentisse di raggiungere significativi risultati in materia ambientale. Il ponderoso studio di impatto predisposto dalla Commissione colpisce il lettore con roboanti annunci. Chi si prendesse la briga di studiarlo a fondo, tuttavia, potrebbe scoprire interessanti sorprese. La montagna di numeri viene pettinata, abbellita, illuminata in modo da far dire qualcosa che, in realtà, i dati non dicono.

Si comincia con una previsione shock – alquanto esagerata, essendo fondata su una mera estrapolazione lineare – sulla crescita della quantità di imballaggi, che passerebbero da qui al 2040 da 78 a 107 Mt/anno (con una crescita del 37 per cento, quando nel quindicennio precedente sono cresciuti dell’11 per cento). Analogamente, le emissioni di CO2 aumenterebbero dalle attuali 59 a ben 93 Mt. Una crescita monstre, non giustificata da ragioni strutturali – i dati mostrano semmai una tendenza verso un appiattimento della produzione di rifiuti pro-capite. Peraltro, le emissioni totali a livello Ue sono 3.065 Mt: come dire che gli imballaggi causano solo l’1,6 per cento di quelle complessive.

Grazie alle misure contenute nel pacchetto, le emissioni si ridurrebbero a 43 Mt (16 in meno di oggi, ma 50 in meno rispetto all’ipotetico valore previsto per il 2040). Sono le riduzioni dovute all’intero pacchetto; se invece isoliamo solo quelle relative al riuso e riutilizzo, pesano per circa il 57 per cento del totale, poco più di 9 Mt. Disaggregando ulteriormente, si scopre poi che buona parte deriva in realtà dalla riduzione degli imballaggi secondari e terziari – quelli utilizzati nelle fasi “all’ingrosso”: pallet, scatoloni, rivestimenti in plastica: da soli fanno circa il 73 per cento del calo complessivo. Quindi, dalla “rivoluzione” nel settore degli imballi primari – quelli destinati al consumo o alla somministrazione al dettaglio – ci si attende al massimo il 27 per cento delle 9 Mt, ossia meno di 3 Mt, per una riduzione complessiva delle emissioni a livello europeo pari a un ben misero 0,08 per cento.

Il dato viene però clamorosamente occultato, presentando i risultati dell’intero pacchetto come se fosse un unicum inscindibile, e come se dalla sua adozione integrale dipendesse il successo del “Fit for 55”, la strategia di decarbonizzazione adottata dall’Ue. Degno di nota il passaggio in cui si enfatizza che esso consente di ridurre le emissioni di un ammontare pari al “42 per cento delle emissioni totali dell’Ungheria” (che per la cronaca rappresenta l’1,6 per cento delle emissioni totali dell’Ue), facendo completamente perdere il senso delle proporzioni, e forse anche quello del ridicolo.

La Commissione ha buon gioco nel mostrarsi punto di equilibrio tra le istanze dei vari stakeholder, pure consultati in un defatigante confronto. Basta elevare al rango di “stakeholder” anche i lanciatori di minestrone, quelli per cui il cilicio non è mai abbastanza stretto, per poter mettere in un angolo le preoccupazioni degli operatori, “sempre attenti solo al proprio portafoglio”.

Al lettore la risposta: si tratta di un importante passo avanti verso la conquista di un mondo libero dai rifiuti e carbon neutral, oppure dell’ennesima prova di un dirigismo ottuso e fondamentalista, di un’ennesima crociata contro capri espiatori (dalla boccetta di shampoo dell’hotel alla busta di insalata già pulita) scelti per compiacere le suffragette della decrescita felice? È un giusto richiamo a uno stile di vita più sobrio e all’abbandono di pratiche consumistiche incompatibili con gli equilibri del pianeta, oppure una misura che compiace solo le aspirazioni penitenziali di una minoranza di talebani? Non era meglio assegnare agli stati membri un target complessivo di riduzione delle emissioni dovute agli imballaggi, e lasciarli liberi di scegliere il mix di misure più opportuno per raggiungerli, eventualmente multandoli in proporzione all’eventuale fallimento?

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