La legge Zan va riscritta

Mettiamoci nei panni di un cittadino comune che volesse capirci qualcosa del dibattito sulla legge Zan. Seguendo i normali canali di informazione (giornali e televisione) penserebbe che oggi in Italia l’aggressione e l’incitamento a commettere atti di violenza nei confronti di omosessuali, lesbiche e trans siano liberi e che, quindi, sia particolarmente urgente una legge che li protegga. Rimarrebbe stupito il nostro cittadino comune nell’apprendere, invece, che norme di carattere generale contro tali atti (incluse le circostanze aggravanti) esistono da molto tempo. Il disegno di legge contro l’omofobia (transfobia, lesbofobia ecc) non si propone dunque di colmare un imperdonabile vuoto normativo, ma intende introdurre norme che appesantiscano le pene per i reati contro le persone che manifestano un orientamento sessuale diverso da quello con il quale viene identificato il sesso di nascita. Infatti la legge che viene proposta introduce nelle norme del Codice penale dedicate a colpire l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi anche quelle fondata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità (art 604 bis).

Sarebbe così messo sullo stesso piano chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico o religioso oppure istiga a commettere o commette atti di discriminazione con chi compie le stesse azioni nei confronti delle diversità sessuali e disabilità. È una previsione di particolare gravità perché colpisce la propaganda delle idee che discende da uno dei diritti fondamentali scritti nella Costituzione (art 21: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Per punire chi manifesta idee contro le diversità sessuali occorrono, dunque, particolari cautele.

La prima è quella di chiarire bene quali situazioni si vanno a tutelare. L’articolo 1 della proposta di legge riporta il seguente elenco: a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­ l’aver concluso un percorso di transizione.

Leggendole attentamente, le suddette categorie potrebbero essere ridotte a due: 1. Il sesso biologico; 2. un comportamento riconducibile ad un’identità sessuale diversa da quella del sesso biologico.

Poiché si tratta di una limitazione del diritto costituzionale ad esprimere il proprio pensiero e di introdurre un reato occorre un particolare rigore. La prima critica è dunque quella della ridondanza: ben tre fattispecie su quattro dicono sostanzialmente la stessa cosa. A parere di chi scrive si tratta di una ridondanza inammissibile quando si tratta di limitare un diritto costituzionale.

Ma veniamo a quella che appare come un’innovazione sostanziale del nostro ordinamento. Si tratta della lettera D) dell’art. 1 ovvero “per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione”.

Bisogna chiarire che la questione non è il diritto di vivere liberamente la propria sessualità senza essere aggrediti o discriminati, ma il riconoscimento di questa “percezione” da parte dell’ordinamento. Se la norma contemplasse esclusivamente due fattispecie – sesso biologico e diverso orientamento – non verrebbe il dubbio che si stia facendo il primo passo per una autonoma scelta del proprio sesso al di fuori di un percorso di transizione già oggi previsto e possibile. Se così fosse si creerebbero molti problemi a partire dai benefici previsti per le donne che andrebbero estesi anche a chi si percepisce tale altrimenti si incorrerebbe nel reato di discriminazione. Si tratta di quote riservate, pensioni, finanziamenti fino al caso limite che si è già manifestato in altri paesi (Usa e Canada) di persone con fisico maschile che pretendono di gareggiare con le atlete. Sono benefici che tendono a colmare lo svantaggio che subiscono tuttora le donne nei confronti degli uomini e che vogliono aiutare chi assolve ad una funzione naturale essenziale: la gestazione.

Ulteriori dubbi vengono per aver assimilato il genere femminile ad una categoria protetta inserendolo nello stesso elenco che comprende minoranze che la legge vuole tutelare (omosessuali, lesbiche e transessuali). La condizione femminile è già oggetto di una normativa specifica e non sembra soffrire le stesse problematiche del mondo LGBT.

Infine viene istituita una giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia che dovrebbe dar luogo a momenti di informazione e incontri nelle scuole. Avrebbe più senso prevedere un orientamento dei programmi educativi ai valori del rispetto e del rifiuto della violenza e della prevaricazione.

In conclusione il fine della legge Zan è chiaro, ma dovrebbe essere riscritta. Come è formulata oggi appare un manifesto di intenzioni con l’aggravante di introdurre nuovi tipi di reati e un’imperdonabile confusione nella loro specificazione

Claudio Lombardi

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