Niente innovazione e l’Italia declina

L’avversione o l’indifferenza alla ricerca scientifica (o alla scienza in generale) evidenziate senza possibilità di dubbio dalle scelte effettuate dalla dirigenza politica in Italia sono un riflesso ormai di una più generale avversione che permea la società stessa, a partire  anche e soprattutto dalle classi benestanti e dal ceto intellettuale “colto”  ed hanno profonde e lontane  radici culturali e storiche.

Sussistono comunque anche motivazioni altrettanto importanti e decisive, legate a passaggi storici decisamente più recenti ed è importante sottolinearle in un contesto più legato alle vicende economiche del nostro paese. Cerchiamo di schematizzare quanto affermato con alcune considerazioni puntuali:

  • Le più generali considerazioni storiche contro la scienza e la libera ricerca non sono una peculiarità italiana. Si pensi a particolari momenti della storia (a volte durati anche secoli) di grandi nazioni come Spagna, Francia, Polonia, Russia, ecc. ecc. che hanno oggi un’altissima considerazione della ricerca scientifica.
  • Le basi antiscientifiche non sono tutte assimilabili ad una matrice religiosa (come è il caso di tutto il periodo della Controriforma) ma attraversano trasversalmente anche il cosiddetto mondo laico; si pensi per esempio alla posizione dell’idealismo italiano, in particolare al provincialismo antiscientifico di Croce e Gentile, che ha influenzato non poco la   riflessione “marxista” dello stesso Togliatti e del gruppo dirigente del PCI.
  • Infatti si può affermare serenamente che la storia italiana dell’area chiamata progressista o di sinistra non è certo immune da questo problema. Si pensi per esempio alle tante battaglie portate avanti dal movimento ambientalista sulla base del principio NIMBY (magari senza ammetterlo). Oppure si pensi ancora alla chiusura aprioristica da parte della cultura di sinistra di fronte ai temi della ricerca scientifica in campo genetico, con un rifiuto assoluto (e in gran parte inutile e ipocrita) degli OGM.

A tutte queste considerazioni deve comunque aggiungersi una motivazione molto più concreta che affonda le sue radici  nel campo dell’economia e delle strategie industriali compiute dalla classe dirigente della nostra nazione.

Con questi presupposti, il momento fondamentale di svolta si situa tra la fine degli anni 50 e i primissimi anni 60.  Riprendiamo le parole di Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, edizione italiana di Scientific American, nell’editoriale del numero di luglio 2018 della rivista.

Poco più di mezzo secolo fa l’Italia era ai primi posti al mondo nelle nuove tecnologie. Quelle di allora, beninteso. Vale a dire la produzione di energia nucleare per uso civile (terzi dopo Stati Uniti e Unione Sovietica), il settore della farmacologia pubblica con relativa ricerca, la chimica dei polimeri con il polipropilene di Giulio Natta, l’elettronica di Adriano Olivetti che portava all’Expo di New York il primo personal computer, il P101, l’ingegneria aerospaziale (terzo paese al mondo a lanciare un satellite per telecomunicazioni).

Se non bastasse, in quegli stessi anni in questa tormentata penisola nascevano gli anelli di accumulazione, con Ada e Adone, i nonni di LHC. E si promuoveva la nascita del CERN…..”

Una serie di eventi nel corso degli anni indicati cambiò radicalmente lo scenario nazionale.

  • Uccisione di Enrico Mattei;
  • Processo e condanna di F. Ippolito, con la dismissione completa del programma nucleare futuro (completò l’opera di distruzione il movimento antinucleare degli anni 80);
  • processo al direttore dell’Istituto Superiore di Sanità G. Marotta, con la cessazione dei programmi di farmacologia pubblica. Il prof. Marotta fu poi assolto in appello, ma ormai i giochi erano già fatti (non ci ricorda qualcosa questo modo di procedere della magistratura?)
  • Morte di Adriano Olivetti e vendita della Divisione Elettronica della società per concentrarla sul “core business” (niente più personal computer, ma solo macchine da scrivere!)

I punti elencati rappresentano momenti di rottura in settori strategici (allora e soprattutto oggi) che vedevano l’Italia all’avanguardia. Va notato che anche il PCI contribuì per sua parte alle campagne diffamatorie e alle indagini strumentali della magistratura, contribuendo alle campagne stampa che crearono un clima di “caccia alle streghe”. In parte perché  questi eventi venivano giudicati come contraddizioni interne al sistema di potere della DC, in parte perché mancavano totalmente strumenti e capacità di analisi di una fase di evoluzione del sistema capitalistico moderno.

In sostanza, la scelta di fondo compiuta dal sistema economico nazionale fu quella di privilegiare una produzione manifatturiera a basso o medio contenuto tecnologico (auto, elettrodomestici, macchine da scrivere, prodotti di chimica di base…) che richiedevano pochi investimenti e garantivano alti profitti nel mercato italiano e estero grazie al basso costo di produzione (salari bassi, inflazione e, quando necessario, svalutazione).

Nel frattempo la spinta contro la ricerca e l’innovazione tecnologica è continuata imperterrita nel nostro paese e le varie campagne NO a qualcosa sono coerenti con il punto di partenza e sono gli effetti finali delle scelte del periodo che abbiamo indicato (NO-OGM, NO-TAP, NO-TAV e NO-VAX sono solo le ultime recenti acquisizioni di un movimento mai spento).

Come accennato, la sinistra dal PCI alle varie formazioni attualmente esistenti, non ha elaborato strumenti concettuali alternativi né è stata in grado di produrre progetti di contrasto e la reazione di buona parte di essa alle timide riforme costituzionali del periodo renziano, con le timidissime aperture del mercato del lavoro alle sfide internazionali, ha reso evidente la sua inessenzialità in questo passaggio storico.

Abbiamo detto passaggio storico perché la situazione internazionale è profondamente cambiata rispetto agli anni 50 e 60. Il libero scambio delle merci, l’abbattimento delle frontiere europee, l’introduzione dell’Euro, la inevitabile perdita dello strumento monetario per causare inflazione o svalutazione e mantenere concorrenziali le nostre merci (a bassissimo contenuto tecnologico, ormai) e finalmente la mancanza di investimenti nella ricerca e nell’innovazione tecnologica fanno sì che l’Italia sia rimasta ferma, senza futuro. E tutto ciò mentre altri paesi europei hanno invece investito percentuali elevate del PIL in ricerca e sviluppo, anche e soprattutto in occasioni delle ultime crisi economiche e monetarie. In parole povere: l’Italia è un paese in gravissima crisi strutturale e forse condannato al default (o comunque ad una perdita di status economico e di importanza globale) anche e soprattutto perché non ha investito in ricerca scientifica e si trova adesso a produrre e vendere merci povere e di scarso futuro nel mercato mondiale.

Per adesso la reazione di gran parte del ceto dirigente del paese (e conseguentemente di tutti i mass media) si è indirizzata a salvare l’esistente e a rifiutare i timidi tentativi di riforma del sistema. L’estrema sinistra e l’ambientalismo radicale del No a tutto sono stati (come da tradizione) le mosche cocchiere di questa scelta, che si è tradotta per adesso in un governo politico che accelera il fenomeno di taglio degli investimenti produttivi in campo culturale e scientifico e aumenta a dismisura il fenomeno di aiuti a pioggia di natura clientelare.

Il rischio è l’impoverimento generale e il ritorno alla moneta nazionale inflazionata.

L’elaborazione di una proposta politica per l’aumento degli investimenti destinati alla ricerca scientifica, affiancata al ritorno al periodo di riforme costituzionali e amministrative, è quindi un passaggio fondamentale per un programma alternativo all’esistente.

Sergio Mancioppi

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