Propal: una strategia di manipolazione

Negli ultimi mesi, confrontandomi con altri attivisti pro-Israele impegnati nella divulgazione, ho notato una disparità evidente: da un lato, la propaganda palestinista — o propal — domina il mainstream con risorse enormi, un’egemonia culturale consolidata e decenni di narrazioni ben oliate, eredità tanto dell’influenza sovietica quanto della retorica postcoloniale contemporanea. Dall’altro, chi tenta di controbattere questa macchina narrativa opera spesso con mezzi limitati, in condizioni di svantaggio, e controcorrente.

Eppure, questa narrazione dominante — per quanto apparentemente solida — è in realtà un castello di carte. Basta un’analisi razionale e un minimo di onestà intellettuale per smontarne i fondamenti.

  • Strategie di manipolazione: Resistenza in Europa, “Nativi” in America

La forza della propal sta nella sua abilità di insinuarsi nei miti fondativi delle società occidentali, appropriandosi di simboli cari all’immaginario collettivo per apparire legittima, moralmente irresistibile e storicamente giusta.

In Europa, la retorica palestinista si sovrappone al mito della Resistenza antifascista, occupando un simbolo chiave dell’identità italiana e continentale. Nelle manifestazioni, le bandiere palestinesi sventolano accanto a quelle dei partigiani; intellettuali e media paragonano l’occupazione israeliana ai regimi nazifascisti. È un’operazione emotiva, costruita con cura: chi osa criticare la narrazione palestinista viene bollato come “nemico della libertà”, se non addirittura “fascista”.

Negli Stati Uniti, il parallelismo preferito è quello con lo sterminio dei nativi americani. Libri come “The Hundred Years’ War on Palestine” di Rashid Khalidi, i murales di Banksy a Gaza o slogan come “From the River to the Sea” (spacciato per innocuo appello alla “decolonizzazione”) si inseriscono nel senso di colpa radicato della sinistra progressista americana. I palestinesi vengono dipinti come i “nuovi nativi”, gli ebrei come i “nuovi colonizzatori”. Una semplificazione rozza e profondamente disonesta: la storia dimostra che gli ebrei sono un popolo indigeno del Vicino Oriente, con radici storiche, culturali e religiose in quella terra che precedono qualsiasi forma di nazionalismo arabo o palestinese. Il nazionalismo palestinese, per come lo conosciamo oggi, nasce infatti nel XX secolo, e in gran parte in risposta al sionismo e agli eventi geopolitici successivi al crollo dell’Impero Ottomano.

Due menzogne fondamentali su cui si regge la propaganda

Quello che rende questa narrazione tanto efficace — e al tempo stesso tanto fragile — è la sua pretesa di unicità. In realtà, due falsi assiomi reggono buona parte del racconto propal, ma se li si esamina da vicino, rivelano tutta la loro inconsistenza:

  1. Il falso mito del “diritto esclusivo alla terra”

La convinzione che un gruppo umano possa rivendicare un diritto eterno e inalienabile su un territorio solo in base a una presenza, spesso frammentaria, negli ultimi decenni o secoli è una forzatura storica. La storia è fatta di migrazioni, conquiste, cambiamenti di confini e mescolanze. Italiani, tedeschi, greci, pakistani: nessun popolo può vantare confini immutabili o popolazioni statiche. Eppure, nel discorso palestinista questa realtà viene ignorata: per loro, la presenza araba nella regione (perlopiù successiva al VII secolo) dovrebbe cancellare millenni di storia ebraica e legittimità del ritorno ebraico.

  1. L’intransigenza elevata a strategia politica

Dall’esplicito rifiuto del Piano di Partizione ONU del 1947, passando per la sistematica negazione del diritto all’esistenza di Israele, fino alla glorificazione del cosiddetto “diritto al ritorno” — utilizzato più come arma demografica che come proposta reale — la leadership palestinese ha sempre privilegiato il radicalismo al compromesso. Di fronte a numerose occasioni di costruire un proprio Stato, ha scelto la strada del “tutto o niente”, trascinando il proprio popolo in decenni di conflitto e sofferenza. Una dinamica che, purtroppo, è stata più volte premiata o giustificata da una parte dell’opinione pubblica occidentale, incapace o riluttante a distinguere tra legittime aspirazioni e strategia distruttiva.

Smontare questa narrazione non è facile, richiede pazienza, studio e un lavoro di contro-divulgazione meticoloso. Ma è un dovere civile e morale. Se cediamo alla pressione emotiva e alle falsificazioni storiche della propaganda propal, legittimiamo non solo una forma moderna di antisemitismo, ma anche una visione tossica della politica, dove il vittimismo e la violenza diventano strumenti accettabili per ottenere ciò che si vuole.

La buona notizia è che i castelli di carte, per quanto imponenti possano sembrare, crollano alla prima folata di vento. E il vento — questa volta — si chiama verità, documenti storici alla mano. Sta a noi farlo soffiare più forte.

Roberto Damico (da facebook)

1 commento
  1. Giuseppe Bizzarro dice:

    Cioè quindi andare in un territorio, prendere la gente che se ne stava lì per conto porprio e relegarla in campi profighi a marcire di fame con la forza delle armi è cosa giista e normale, fatemi capire?

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