Referendum sull’acqua: le ragioni del sì (di Claudio Lombardi)

Il referendum sull’acqua ci pone due domande.

Con la prima ci chiede se va cancellata la norma che prevede di affidare la gestione dell’acqua (nonché dei rifiuti e dei trasporti locali perché la norma da abrogare riguarda tutti e tre) in due modi: o con gare pubbliche o mantenendo gli affidamenti diretti (di solito a società di proprietà pubblica ex municipalizzate che da sempre hanno gestito il servizio) purché sia fatto entrare un socio privato con compiti operativi e una quota di azioni del 40%. Nel caso di SpA quotate in borsa gli affidamenti diretti cessano se gli enti locali proprietari non vendono la maggioranza delle azioni limitando la propria partecipazione ad una quota massima del 30%.

Perché l’ingresso dei privati è stato ritenuto essenziale dal Governo tanto da imporlo per legge? Perché, si dice, l’acqua ha bisogno di grandi investimenti (64 mld di euro) e i soldi lo Stato e gli enti locali non ce l’hanno. Si dice anche che solo la concorrenza può far scendere le tariffe aumentando la qualità.

È vero? No, non nel caso dell’acqua. A giudicare dall’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva le tariffe più alte sono quelle delle gestioni private. Ma i servizi sono rimasti gli stessi: più o meno efficienti (ad Agrigento l’acqua non arriva nelle case però i privati si fanno pagare molto caro il servizio)

Allora perché un privato dovrebbe accollarsi un servizio che ha bisogno di grandi investimenti e nel quale l’obiettivo dovrebbe essere la diminuzione delle quantità erogate attraverso la riparazione delle falle negli acquedotti e la cultura dell’uso responsabile dell’acqua? Misteri della fede nelle privatizzazioni!

Per chi non vuole avere fede la cosa più ragionevole è cancellare la norma aprendo la strada ad una riforma dei servizi idrici che parta dal fissare gli obiettivi pubblici di un servizio essenziale, dal decidere i lavori da fare e con quali risorse senza atti di fede in un mercato nel quale si moltiplicherebbero per magia i miliardi di euro, dallo stabilire i gradi di responsabilità e le regole da rispettare, dalla ricerca del coinvolgimento dei cittadini.

Ciò che interessa i cittadini, infatti, è che i servizi pubblici funzionino non che ci siano i privati a gestirli. Dunque sorprende tanta sicurezza del legislatore nell’approvare una “riforma” che tocca solo l’aspetto della proprietà delle società di gestione.

Possiamo dubitare della buona fede del legislatore? Sì, e la risposta sta nel secondo quesito sull’acqua, quello che si occupa del calcolo della tariffa, stabilendo un rendimento del 7% del capitale investito da parte delle aziende di gestione.

La questione è semplice: le tariffe dei servizi idrici garantiscono un’entrata sicura che può solo aumentare; i cittadini non possono fare a meno dell’acqua e prima o poi sono costretti a pagare quello che una gestione comunque monopolistica (l’acqua non può essere prodotta in concorrenza, ma è un monopolio locale per natura) chiede che loro paghino; chi si prende le società di gestione dell’acqua si prende una rendita sicura, una delle poche rimaste sul mercato.

Quindi, gestione sotto controllo pubblico necessaria per assicurare l’acqua a tutti, per gestire gli investimenti necessari per riparare gli acquedotti (eliminate il Ponte sullo stretto di Messina se non trovate i soldi), ma necessaria anche per risparmiare l’acqua visto che l’interesse di un privato non è certo quello della diminuzione dei consumi di un bene che vende.

Dal sì al referendum deve venire anche una sfida alla politica a prendersi la responsabilità di un rilancio della cultura dei servizi pubblici. Dopo molti anni in cui i servizi sono stati visti come un peso per i bilanci pubblici e una facile mangiatoia per i politici corrotti in combutta con imprenditori avventurieri e criminalità organizzata è arrivato il momento di rimettere le cose a posto. E non significa che lo Stato deve tornare a costruire di tutto (dalle automobili ai panettoni), ma che di alcuni servizi essenziali (ciclo dell’acqua, ciclo dei rifiuti, trasporti e, ovviamente istruzione e sanità) non se ne può lavare le mani dicendo che ci deve pensare il mercato.

Qui c’è spazio per una nuova politica.

Claudio Lombardi

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