Taglio dei parlamentari: no, così no

Feticcio dell’antipolitica il taglio del numero dei parlamentari è giunto al passaggio finale. Solo in una situazione politica disastrata come quella italiana una modifica costituzionale così misera poteva avere successo. Dopo che nel 2016 è stata respinta una riforma complessiva, forse troppo ampia, ma frutto di una visione matura e di una profonda razionalità, gli italiani si trovano adesso a dire sì o no al prodotto ultimo di una strategia politica iniziata dieci anni fa con il “vaffa”. Inutile arrampicarsi sugli specchi e dire che, poiché il taglio è ormai stato approvato, dobbiamo dargli un senso diverso da quello che ha avuto fin dall’origine e immaginare che sia solo il primo passo di lungimiranti riforme che tocchino ruolo, funzioni e procedure parlamentari. Tutte ipotesi, peraltro non univoche, sul seguito da dargli e nessuna certezza che approderanno a qualcosa di concreto.

No, così non si può accettare una misura che avrebbe ben altro senso in un altro contesto. Scegliere il numero dei parlamentari con l’unica guida della sfiducia e della protesta contro i costi della rappresentanza è segno di poca intelligenza. Se lo accettassimo perché allora 600 e non 550? O 400? O anche UNO?

La verità è che il problema della rappresentanza parlamentare in Italia non è il numero degli eletti, ma è come svolgono la loro funzione. In questi mesi abbiamo avuto un esempio macroscopico di quanto poco conti il Parlamento. Seguendo una prassi consolidata le leggi hanno avuto origine da decreti legge sui quali spesso è stata posta la questione di fiducia e le norme che più hanno inciso sulla vita dei cittadini erano dei semplici atti amministrativi come i Dpcm. Questo svuotamento del ruolo del Parlamento non dipende dal governo in carica, ma è un processo che risale molto indietro negli anni e non è nemmeno detto che sia facile recuperare una centralità delle assemblee parlamentari ristabilendo ciò che si è perduto. Le fonti legislative sono molto cambiate da quando fu scritta la Costituzione e non si può nemmeno pensare che il lavoro di un Parlamento si esaurisca con l’approvazione delle leggi. Da anni si richiama la necessità che le camere abbiano funzioni differenziate, ma il bicameralismo che rende Camera e Senato sempre più uguali tra loro resta un macigno inamovibile sulla strada di qualsiasi riforma costituzionale. Un bicameralismo del tutto insensato.

Se il Parlamento volesse trovare un ruolo più utile dovrebbe guardare alla dimensione europea e a quella regionale cercando di raccordare le decisioni prese a quei livelli con le normative nazionali. Per questo fu proposta la trasformazione del Senato in camera delle autonomie regionali. Ci sarebbero molti spazi da occupare per esempio nel campo delle commissioni di inchiesta sui temi sociali, dello sviluppo, dell’economia, delle nuove frontiere tecnologiche e sul loro impatto con la vita dei cittadini. Perché lasciare questo compito a centri di studio e ricerca o ad organismi governativi? Le inchieste parlamentari sono già strumenti consolidati, ma che ne è delle loro conclusioni? Immaginare uno sbocco legislativo o una traduzione in atti di governo sarebbe possibile ridefinendo i compiti del Parlamento e differenziando le funzioni tra le due camere.

E perché non pensare ad un più penetrante controllo sull’attuazione delle leggi e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni? Lo sappiamo benissimo che l’approvazione di una legge è nulla se non ne segue l’attuazione con ulteriori strumenti normativi. Sappiamo anche che su questo fronte ci sono incredibili ritardi sui quali si stende un velo pietoso di solito scoperchiato da alcuni giornali molto attenti (Il Sole 24 Ore innanzitutto). Il Parlamento oggi non ha alcun potere di intervento a questo livello. Perché, invece, non pensare a commissioni parlamentari che abbiano uno specifico potere di controllo in questa materia?

Se si volesse agire con serietà prima bisognerebbe ridefinire le funzioni e poi verificare il numero di parlamentari congruo per svolgerle.

Sui costi c’è ben poco da dire. Se i parlamentari devono solo schiacciare un bottone per votare la fiducia al governo in carica in effetti i compensi attuali appaiono esagerati. Ma se si riesce ad imprimere una svolta al loro lavoro allora cambia anche il modo di considerare i costi.

Ci sarebbe molto da dire sulla trasformazione della rappresentanza parlamentare in uno strumento più produttivo e se lo si facesse si potrebbe affrontare anche la questione dei costi con uno spirito più costruttivo. Si può benissimo immaginare di abbassare i compensi dei parlamentari così come si potrebbero abbassare quelli dei consiglieri regionali e non sarebbe nemmeno uno scandalo immaginare accorpamenti di regioni troppo piccole per giustificare la loro esistenza.

Non ci devono essere tabù. Di tutto si può parlare e bisogna abbandonare l’immobilismo di chi pensa che il massimo possibile sia già stato raggiunto nel passato e che qualunque cambiamento sia un peggioramento. Ma iniziare col taglio dei parlamentari visto come un taglio delle poltrone come se si trattasse di parassiti sulle spalle dello Stato non è accettabile. Dietro non c’è nessun progetto, nessuna idea di come le istituzioni debbano adeguarsi ad un mondo che cambia. C’è solo uno spirito di rivalsa che è il registro con il quale il M5s ha presentato quella che viene considerata la sua principale battaglia fin dall’inizio. Per questo è meglio dire no

Claudio Lombardi

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