A che punto sono le grandi riforme
L’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica e soprattutto le particolari modalità con cui è arrivata – senza il voto di Forza Italia, soprattutto – hanno fatto discutere molto negli ultimi giorni opinionisti ed esperti del cosiddetto “patto del Nazareno“, cioè l’accordo politico trovato da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi il 18 gennaio del 2014 presso la sede del Partito Democratico (si chiama così perché la sede del PD si trova in via di Sant’Andrea delle Fratte, poco distante da largo del Nazareno).
Al di là delle molte teorie più o meno complottiste circolate in questi mesi, Berlusconi e Renzi annunciarono che quell’accordo politico era stato trovato su tre grandi iniziative: la riforma del Titolo V della Costituzione, che consente alle regioni una forte autonomia di spesa; la fine del bicameralismo perfetto attraverso una riforma costituzionale che cambi le prerogative del Senato; la riforma della legge elettorale. Un anno e un presidente della Repubblica dopo, questo è lo stato delle riforme.
Dopo molte discussioni e passaggi in commissione in aula, lo scorso 27 gennaio il Senato ha approvato una proposta di riforma della legge elettorale – il cosiddetto Italicum – apportando delle modifiche rispetto a un testo già votato alla Camera. I cambiamenti principali si possono leggere qui e hanno assecondato molte delle richieste presentate dalla minoranza del Partito Democratico, dalla soglia per accedere al premio di maggioranza alla destinazione del premio stesso alla lista e non alla coalizione più votata, fino a una parziale introduzione delle preferenze. La minoranza del PD chiede ancora di cambiare l’assegnazione dei seggi, che secondo la legge oggi avverrebbe con i capolista bloccati (quindi scelti dai partiti) e in un secondo momento, per i partiti che eleggono più di un parlamentare in quel collegio, i candidati eletti con le preferenze.
La riforma dovrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva. Alla Camera il PD ha una maggioranza larga e quindi può decidere cosa fare con una certa autonomia: qualora decidesse di modificare di nuovo la legge, dovrebbe tornare al Senato; questo scenario è comunque considerato improbabile. Non ci sono però notizie sui tempi previsti per il passaggio della legge elettorale alla Camera, dove oggi è in discussione la riforma costituzionale. In ogni caso, non c’è particolare fretta: un comma approvato in Senato prevede che la legge elettorale entri comunque in vigore solo a metà del 2016. Inoltre, la legge vale solo per la Camera, in vista della riforma del bicameralismo.
Riforma del bicameralismo
La riforma del bicameralismo prevede che il Senato sia composto da 100 senatori e non più 315: 95 ripartiti tra le regioni sulla base del loro peso demografico e scelti dai Consigli Regionali, invece che eletti dai cittadini (74 saranno consiglieri regionali e 21 saranno sindaci), cinque nominati dal presidente della Repubblica (che sostituiranno i senatori a vita). Oltre a non essere eletti, i senatori non saranno pagati (la durata del mandato coinciderà con quella delle istituzioni territoriali di cui saranno espressione) e non voteranno la fiducia al governo. Il Senato potrà votare solo per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi elettorali degli enti locali e ratifiche dei trattati internazionali, leggi sui referendum popolari e il diritto di famiglia, il matrimonio e il diritto alla salute. Una spiegazione più estesa del funzionamento del nuovo Senato si può leggere qui.
La riforma è stata approvata dal Senato in prima lettura lo scorso agosto e lo scorso 13 dicembre è stata approvata anche in commissione alla Camera, seppure con qualche agitazione per l’approvazione di due emendamenti dell’opposizione (poi cancellati da altri emendamenti). La riforma è ora all’esame dell’aula, che ne ha già approvato l’articolo 1. La riforma dovrebbe essere approvata in prima lettura anche alla Camera entro febbraio. La legge a quel punto tornerebbe al Senato: visto che si tratta di una legge costituzionale, dovrà essere approvata due volte nella stessa forma da entrambe le camere. Se non otterrà i due terzi dei voti, dovrà essere confermata da un referendum senza quorum (in cui, quindi, basterà che il 50 per cento più uno dei votanti scelga l’abrogazione per cancellare la riforma).
La maggioranza che sostiene il governo Renzi ha i numeri per approvare la riforma senza i voti di Forza Italia, sebbene abbia detto di voler fare le riforme importanti con l’opposizione. Se approvasse la riforma senza i voti di Forza Italia – come ha minacciato Renzi nelle ultime ore – sarebbe sicuramente necessario ricorrere al referendum; ma d’altra parte la ministra per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi si è impegnata a organizzare un referendum in ogni caso.
Per quanto fosse il terzo punto del cosiddetto “patto del Nazareno”, dal punto di vista legislativo la riforma del titolo V è parte della riforma costituzionale che prevede la fine del bicameralismo perfetto. Il Titolo V è la parte della Costituzione che regola i rapporti tra lo Stato e le regioni: qui una spiegazione estesa della sua storia e del perché moltissimi lo considerano un problema. La riforma rovescia il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle regioni e restituisce pressoché integralmente allo Stato competenze come l’energia, le infrastrutture strategiche, le grandi reti di trasporto, la salute e la previdenza.
La legge prevede tra le altre cose qualche modifica riguardo i referendum abrogativi (se le firme raccolte dai promotori saranno 800 mila e non 500 mila, la soglia per la validità del referendum sarà la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera), alza la soglia di firme necessaria per presentare leggi di iniziativa popolare (da 50 a 150 mila), introduce i referendum propositivi e sopprime il CNEL, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
Tratto da www.ilpost.it
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