Elezioni Usa: da Bush Vs Al Gore al fenomeno Trump

Il quartier generale di Al Gore era a Nashville, Tennessee. In attesa del giorno fatale decine di giornalisti sciamavano lungo la Main street e si facevano un goccio di birra – a volte più di un goccio – nei piccoli caffè musicali del centro città. Da Arthur’s, sgranocchiando gigantesche onion rings e crab cakes bollenti, la sera ti aspettavi di veder comparire a braccetto Bob Dylan e Johnny Cash.

Pronti per le dirette televisive, i colleghi americani si facevano spruzzare nuvole di lacca sulle chiome ben pettinate e per salvare camicia e cravatta proteggevano il decolleté con un bavaglino di carta. Gli inviati europei, sempre un po’ in affanno, battevano chiese e sobborghi alla ricerca di un po’ di colore locale. Il copione era già scritto, nella tradizionale sfida tra il gioviale vice di Clinton e il rampollo un po’ stordito della dinastia texana dei Bush.

Poi tutto si complicò all’improvviso, tutto divenne più canagliesco, tutto si aggrovigliò per non sciogliersi più: «Too close to call», troppo vicini i due rivali, troppi impicci nel voto, per proclamare il vincitore. Volammo allora verso Miami, perché era la Florida il cuore del pasticciaccio elettorale. E non bastò la Florida, con il suo ardente lungomare e il vociante quartiere cubano, cosicché dopo il conto e il riconto dei voti tutto fu messo in mano agli avvocati: frotte, manipoli, eserciti di avvocati. Noi giornalisti, rassegnati, fummo richiamati a New York e Washington: tutti in redazione, a spulciare ogni giorno il quotidiano duello di carte bollate e azzeccagarbugli.

Lo strazio durò trentaquattro giorni. Alla fine Al Gore – stremato – gettò la spugna. Rischiava, il poveretto, di essere dipinto come un sore loser: e non c’è nulla di peggio, in America, di un perdente piagnucoloso. Il giovane Bush fu invece sospinto verso la Casa Bianca, dove lo attendevano al varco l’11 settembre e i dolori e la poca gloria del nuovo “scontro di civiltà”.

Oggi i cultori dei corsi e ricorsi della storia potrebbero così trovare conforto alla loro teoria: nelle umane vicende nulla si crea e nulla si distrugge. Ebbene, non è così, e qui lo dico: sono trascorsi venti anni ed è come se sotto i ponti del Potomax fosse passato più di un secolo. Come se da una confortevole farsa all’americana fossimo transitati ad una malmostosa tragedia americana.

Le differenze tra ieri e oggi sono clamorose. Intanto, l’inusitata caratura di uno dei protagonisti. Donald Trump, The Donald, è il ritratto vivente della teoria del pazzo (“the madman theory”), una categoria interpretativa che i politologi americani crearono mezzo secolo fa decrittando l’approccio di Richard Nixon alla politica estera. In breve: per un certo periodo, dal 1969 al 1974, il presidente americano decise di «comportarsi da pazzo», sicuro che la minaccia nucleare – squadernata e ripetuta da Washington come opzione prossima e realistica – avrebbe ridotto Mosca e Pechino a più miti consigli. Inutile dire che l’impero del male non si lasciò intimorire e che il pazzo della Casa Bianca fu costretto a rinsavire e a battere la strada più produttiva della buona diplomazia.

Come un Richard Nixon più ruvido e ingombrante, fin dal suo ingresso alla Casa Bianca, Donald Trump ha adottato la tattica delle reazioni enormemente sproporzionate (cioè da pazzi) sia nelle relazioni internazionali sia nell’agone domestico. La politica americana si è trasformata così un continuo match di “lotta nel fango”, elemento in cui il bancarottiere americano si trova da sempre a suo agio.

L’avvento di The Donald ha dunque piegato l’universo politico a una cifra di scatenato plebeismo, con il sigillo finale del pazzo sulle elezioni presidenziali: «Ho vinto io, e il conto dei voti deve essere interrotto. Tutto il resto è un complotto dei nemici interni dell’America».

Il fenomeno Trump è causa, ma anche effetto, della deriva americana. Venti anni fa – che ci sembrano cento – si sfidavano due cinquantenni ben piantati nei rispettivi accampamenti politici. Il democratico-ecologista Al Gore da una parte, il neo-conservatore, evangelico rinato (“re-born”) George Dabliù Bush dall’altra. Lo spettacolo che ci offre oggi il teatro politico è assai più deprimente. Ormai tramontate le grandi dinastie, i due partiti tradizionali sono a pezzi. L’antico partito Repubblicano è da un quinquennio ostaggio di un fellone e della sua corte di radicali di destra, cricche evangelicali, gruppi bianchi suprematisti e negazionisti. Le voci interne messe a tacere, antichi cavalli di razza sepolti.

Sull’altro versante, il partito democratico – che pure viene dall’epoca Obama – non è riuscito a trovare un candidato degno. Si è affidato prima alla voglia di rivincita di una antica first lady senza empatia e ispirazione, poi – in debito di ossigeno – ha spinto sul palcoscenico l’onesto pensionato Spleepy Joe (Joe il dormiglione).

Crisi dei partiti, si dice in Italia, con un termine ormai abusato. Ebbene sì: oggi la democrazia americana si affida a un affannoso braccio di ferro tra due ultrasettantenni. Chi vincerà lo vedremo nei prossimi giorni o – peggio – nelle prossime settimane. Il cronista ricorda che venti anni fa, al culmine della sfida tra Bush Junior e Al Gore, i revisori chiamati a ricontare scheda per scheda si accapigliavano anche sulla validità dei cosiddetti voti incinti («pregnant ballots»): quelle schede su cui il punzone manovrato troppo debolmente dall’elettore aveva creato solo una debole protuberanza cartacea, e non il classico foro sotto il nome del candidato. E le dirette televisive mostravano zelanti impiegati intenti a esaminare controluce i segni impressi su migliaia di cartoncini rettangolari. Così eravamo: se non più innocenti, certamente più ingenui.

La questione si sciolse infine quando alla testa del plotone degli avvocati la famiglia repubblicana chiamò un indiscusso principe del foro e della politica politicante: James Addison Baker III°, già dignitario di Reagan e già astuto Segretario di Stato di Bush senior. Di fronte a tanta potenza di fuoco, il candidato democratico non ebbe altra scelta che alzare bandiera bianca.

James Baker III° ha oggi 90 anni: sarebbe interessante chiedergli un parere sulla sfida di questi giorni.

Flavio Fusi tratto da www.succedeoggi.it

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