Europeizzare la politica – stralci da un discorso di Giorgio Napolitano

“Il punto cruciale è che in un continente interconnesso come non mai – dall’economia al diritto – la politica è rimasta nazionale. Ed è questo un fattore fondamentale di crisi della costruzione europea, e nello stesso tempo di crisi della politica……

Le vicende convulse che per effetto della crisi si stanno da un biennio succedendo nell’Eurozona spingono con inaudita forza oggettiva in una direzione ineludibile : quella di un’integrazione sempre più stretta e comprensiva tra gli stati unitisi prima nella Comunità e poi nell’Unione. Sono infatti insorti e divenuti evidenti limiti e contraddizioni superabili solo attraverso un pieno e coerente compimento politico del progetto europeo nato sessanta anni orsono.

Questa direzione di marcia, questo balzo in avanti incontra ostacoli e resistenze molto forti : ma sta crescendo la coscienza di come sarebbe catastrofica per l’Europa la scelta opposta, un tornare indietro, un regredire dal cammino compiuto nel corso di un sessantennio.

Quel che voglio dire, in estrema sintesi, è che sono esplosi i problemi lasciati nello sfondo e non affrontati dopo la nascita dell’Euro ……………. Il trasferimento alle istituzioni comunitarie delle sovranità nazionali in quel settore cruciale, e alla neo-istituita Banca Centrale Europea della gestione effettiva della politica monetaria, avrebbe dovuto essere rapidamente coronato da passi decisi sulla via della definizione e della rigorosa osservanza di regole e discipline condivise in materia di politiche di bilancio; e sulla via di un efficace governo dell’economia, per garantire avvicinamento e convergenza – anziché squilibri crescenti – tra i processi di sviluppo dei paesi della zona Euro.

Ma ciò comportava il superamento di riluttanze e rigidità manifestatesi ad esempio nel confronto svoltosi, tra il 2002 e il 2003, in seno alla Convenzione incaricata di elaborare un progetto di Trattato costituzionale.

Quelle chiusure, ribadite nel Trattato di Lisbona sottoscritto il 13 dicembre 2007, hanno fatto sì che l’Unione europea si trovasse poco dopo impreparata a fare i conti con l’impatto della crisi finanziaria globale.

Non si è andati finora al di là di un disegno di Unione di bilancio e di Unione bancaria ; e decidendo come si è deciso, si è dato in molti casi alle opinioni pubbliche il senso di costrizioni da subire con sacrificio di procedure democratiche, e in assenza di ogni possibilità di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini, di consapevole riscontro nell’opinione pubblica più larga.

Il profondo disorientamento che ne è scaturito, il diffondersi – anche attraverso movimenti politico-elettorali di stampo populista – di posizioni di rigetto dell’Euro e dell’integrazione europea, il radicarsi – tra gli investitori e gli operatori di mercato su scala globale – della sfiducia nella sostenibilità della moneta unica e della stessa Unione, possono superarsi perseguendo decisamente, e non solo a parole, la prospettiva di una Unione politica europea di natura federale.

E questa prospettiva deve nascere da un ampio moto di partecipazione e da un processo di trasformazione della politica.

Si sollevano ora polemicamente, da qualche parte, riserve e contrarietà su ulteriori cessioni di sovranità nazionale a favore dell’Unione, come se il processo di integrazione non fosse stato basato fin dalla sua nascita sul principio – vedi art. 11 della Costituzione italiana – di una libera autolimitazione della propria sovranità da parte degli Stati nazionali.

La necessità di delegare funzioni sempre più significative, già proprie della sovranità nazionale, alle istituzioni dell’Unione succedute a quelle della Comunità, si è fatta cogente e ineludibile ; il vero problema è quello della democraticità del processo di formazione delle decisioni dell’Unione.

L’asse del potere di decisione si è spostato, dalle istituzioni comunitarie sovranazionali – Commissione e Parlamento – verso i capi di governo, verso il Consiglio europeo e il suo nucleo più forte. Ne ha sofferto anche il ruolo dei Parlamenti nazionali. Ma quale può essere la risposta, la via d’uscita?

Il passaggio, per la democrazia, dalla dimensione nazionale a una dimensione sovranazionale, costituisce una prova ardua, come già lo fu il passaggio dalle piccole città-Stato agli Stati nazionali. Sul piano istituzionale e politico, l’Unione federale si nutrirebbe di solidarietà, di sussidiarietà – in una corretta, non subdola accezione del termine – di confronto e cooperazione tra istituzioni sovranazionali, nazionali, regionali e locali, fatto salvo il potere decisionale supremo riservato alle istanze europee nella definizione e nell’attuazione dell’interesse comune.

In questo quadro, una particolare importanza assumerebbe, per il suo potenziale democratico, la componente parlamentare, comprendente insieme il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali, che senza sovrapporsi nell’esercizio delle loro distinte funzioni, condividerebbero l’esercizio del potere costituente nell’Unione, concorrerebbero a garantire il rapporto tra elettori ed eletti nel vasto territorio europeo, e collaborerebbero in molteplici campi e modi concreti.

E tuttavia non finisce qui, e cioè sul terreno della possibile e necessaria ulteriore evoluzione istituzionale, il discorso di un’Europa democratica. Quella che manca è una dialettica politica finalmente europea, con le sue sedi, le sue forme di espressione, le sue forze protagoniste.

La politica è rimasta frammentata, chiusa in sempre più asfittici ambiti nazionali, è stata sempre meno capace di guidare le decisioni europee e anche solo di raccontarle.

Si è continuato a far politica in chiave nazionale, secondo visuali sempre più ristrette, ed elettoralistiche di parte, rinunciando a una funzione promotrice di riflessione e di dibattito, anche – si sarebbe detto una volta – pedagogica. E ciò è stato fattore tra i più gravi di ripiegamento, immeschinimento, perdita di autorità della politica e dei suoi attori principali, i partiti. Questi hanno certamente, e non solo in Italia, pagato il prezzo, da un lato, di un pesante impoverimento ideale, e dall’altro di arroccamenti burocratici, di un infiacchimento della loro vita democratica, di un chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale.

Si possono e debbono, oggi, apprestare rimedi a questi mali, a queste patologie, e perciò si lavora e si dovrà lavorare – con successo, mi auguro – qui da noi, alla regolamentazione in senso democratico dei partiti secondo l’articolo 49 della Costituzione, alla revisione del sistema di finanziamento dell’attività politica, al rafforzamento delle normative anti-corruzione. Di ciò abbiamo senza dubbio bisogno.

Nessuna nuova o più vitale democrazia potrà nascere dalla demonizzazione dei partiti, nel deserto dei partiti. Quel che è indispensabile, non solo in Italia ma in Europa, è che si rinnovino.

A tale rinnovamento possono certamente contribuire nuove forme di comunicazione e di partecipazione politica, se vi si fa ricorso in modo responsabile e trasparente. Né si può restringere l’attenzione ai partiti già in campo, quali si sono definiti storicamente o più di recente ridefiniti, ignorando nuovi movimenti capaci di raccogliere anche sul terreno elettorale delusioni e aspirazioni specie delle più giovani generazioni.

La questione cruciale, decisiva è che in Europa la politica, i suoi attori e le sue guide, i partiti e le leadership, riacquistino quel più alto senso della missione che ne ha fatto in precedenti periodi storici la forza e la grandezza.

Un senso della missione comune che può solo essere la missione di unire l’Europa, di farla vivere e pesare nel mondo nuovo di oggi e di domani.

I partiti debbono impegnarsi – non da soli, certo, ma in prima linea – in una vera e propria controffensiva europeista. E possono farlo solo europeizzandosi. Abbiamo bisogno di partiti realmente europei, ovvero sintonizzati e organizzati su scala europea.

Rischiano, al contrario, la marginalizzazione e l’irrilevanza gruppi e movimenti politici che in qualsiasi paese dell’Unione si rinchiudano in una logica esclusivamente protestataria, preoccupati soltanto di “chiamarsi fuori” dall’assunzione di comuni responsabilità europee.

Ed è precisamente in questo senso che vanno alcune proposte, realizzabili senza dover neppure modificare i Trattati vigenti, ma valorizzando tutte le potenzialità in essi contenute. Come l’adozione, già in vista delle elezioni del Parlamento europeo nel 2014, di una “procedura elettorale uniforme” che consenta lo scambio di candidature e la presentazione di capilista unici tra paese e paese da parte dei grandi partiti europei. O come l’identificazione tra la figura del presidente del Consiglio europeo e il presidente della Commissione europea, affidandone in prospettiva la scelta – tra diversi candidati designati al livello europeo dai maggiori schieramenti – agli stessi elettori che votano direttamente (ormai dal 1979) per il Parlamento di Strasburgo.

C’è urgente bisogno di quella che ho chiamato una “controffensiva europeista”. E come si può concepirla e condurla al successo senza un’ampia partecipazione di forze giovani, oggi distanti dalla politica in Italia e non solo in Italia ? Cercate, giovani, ogni varco per far sentire e valere le vostre ragioni, le vostre esigenze e per esprimere – ciascuno secondo le sue libere scelte – idee ricostruttive e rinnovatrici sulla politica”

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