Il caso Albania e la solita ipocrisia sull’immigrazione

Da più di vent’anni abbiamo a che fare con l’immigrazione irregolare. In un arco di tempo così lungo bisogna domandarsi come sia stata affrontata e capire quali linee hanno prevalso costituendo la politica che si è imposta di fatto.

Se pochi anni fa dire “aiutiamoli a casa loro” era considerata quasi una bestemmia e suscitava l’indignazione dei vescovi, delle sinistre e di molti moderati vuol dire che la linea prevalente era quella di accogliere chiunque riuscisse ad arrivare. L’aiuto (incluso il salvataggio dei naufraghi) a compiere la traversata era sentito come uno dei principali doveri dello stato italiano e delle ONG che organizzavano numerose navi per la ricerca in mare anche a poche miglia dalle coste africane. Se le barche affondavano era tutto un coro di auto colpevolizzazione che dominava i titoli dei quotidiani e i TG per giorni. Noi dovevamo sentirci colpevoli per aver permesso che accadesse. Di fatto si costituì una situazione nella quale noi eravamo responsabili per quelli che migravano e non vi erano alternative all’accoglienza di tutti trattata come un imperativo morale. La nota dominante era che i migranti dovessero essere tutti uguali, che fuggissero da una guerra oppure che fossero alla ricerca di migliori condizioni di vita. E così è stato. La Bossi-Fini che condiziona il permesso di soggiorno ad un contratto stipulato nel paese di origine è ancora la cornice legislativa con la quale si affronta l’immigrazione di chi cerca un lavoro. È una legge da cambiare radicalmente. La strada giusta è semplice: concessione di permessi direttamente nelle ambasciate e nei consolati che permettano ai migranti di arrivare in maniera regolare ed essere immessi in un circuito di formazione e di politiche attive del lavoro. Questo sarebbe il modo giusto per soddisfare la domanda di lavoratori delle imprese facendola incontrare con la ricerca di lavoro da parte dei migranti. La condizione perché si possa cambiare sistema è però la riduzione drastica degli arrivi irregolari. Finché non si riuscirà a metterli sotto controllo il canale principale di immigrazione in l’Italia resterà in balia di chi organizza le partenze che siano le bande di trafficanti o gruppi di persone che mettono in acqua una barca per conto loro.

Non aver scelto una politica dell’immigrazione (con l’unica eccezione del tentativo di frenare le partenze compiuto dal ministro Minniti nel 2017 e per questo sottoposto a durissime critiche), blocca i governi italiani da molti anni e  produce degrado nelle aree urbane ed esasperazione tra i cittadini. Col governo Meloni è cambiato il discorso di fondo come mai prima d’ora. Il messaggio è che la politica dell’immigrazione non consiste nei salvataggi e nei trasbordi in mare. Si continua a farli, ma non sono più il cuore delle politiche migratorie. Al primo posto è stato posto esattamente il principio duramente osteggiato anni fa: “aiutiamoli a casa loro”. Il cosiddetto Piano Mattei, gli accordi con i paesi rivieraschi e anche la decisione di costruire un hot spot e un CPR in Albania e potenziare i rimpatri fanno parte di una strategia complessa e di lunga durata. Il tentativo serio è quello di frenare e scoraggiare gli arrivi irregolari che mettono in crisi un sistema di accoglienza già di suo gravemente deficitario. Ci vorrà molto tempo per ottenere dei risultati significativi. Le denunce di deportazione dei migranti sono pure declamazioni idealistiche. Sono trent’anni che sentiamo la stessa musica e i risultati li abbiamo visti. L’immigrazione è una risorsa se è gestita non se avviene in una situazione caotica che produce degrado e problemi di sicurezza.

Abbiamo visto che per gli irregolari ci sono poche opzioni: criminalità, supersfruttamento, prostituzione, vivere di espedienti accampandosi dove capita, vivere di carità. Non può che essere utile se si comincia a tenere lontani dall’Italia una parte di quelli in arrivo. Ma nella massa degli irregolari ci sono anche persone che vorrebbero lavorare e vivere onestamente. Perché non aprire alla possibilità di assegnare permessi di soggiorno alle persone più adatte ad essere formate ed integrate? È una questione di buonsenso: gli immigrati sono già qui e non c’è speranza di rimpatriarli, una strada nuova per regolarizzarne la presenza sarebbe la scelta vincente.

Mettere ordine nell’immigrazione è un lavoro immane, ma deve servire anche per liberarsi da alcuni luoghi comuni. Gli immigrati sono la migliore medicina per l’economia italiana afflitta da scarsa produttività e insufficiente innovazione? No perché disporre di mano d’opera a basso costo ma dequalificata non può che accentuare queste debolezze. Servirebbero di più le centinaia di migliaia di giovani italiani qualificati che sono emigrati alla ricerca di migliori guadagni e di sistemi che riconoscono i meriti. Avere un esercito di mano d’opera dequalificata e disponibile allo sfruttamento non serve allo sviluppo e alla competitività.

L’integrazione dovrebbe essere lo scopo di ogni politica dell’immigrazione. Abbiamo dei valori non negoziabili e bisogna farlo capire a chi ha in testa culture molto diversa dalla nostra perché non tutte le diversità sono ricchezza. Alcune sono impoverimento. Si pensi alla condizione delle donne in quasi tutti i paesi di provenienza dei migranti. Vogliamo che quelle culture diventino quelle prevalenti?

Claudio Lombardi

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