Referendum e legge elettorale: non recriminare, ma rimettersi al lavoro (di Claudio Lombardi)
Con la sentenza della Corte Costituzionale del 12 gennaio che ritiene inammissibili i referendum abrogativi della legge elettorale del dicembre 2005 si chiude una fase della battaglia del movimento contro una normativa antidemocratica e anticostituzionale che rappresenta una vergogna per un Paese civile.
La storia delle leggi elettorali e dei referendum inizia venti anni fa quando un voto popolare cancellò le preferenze plurime e lasciò all’elettore un’unica preferenza. Era iniziato un processo di fuoriuscita dal proporzionale puro e dal “mercato” delle preferenze sul quale si era costruita la rappresentanza politica nell’Italia repubblicana. Infatti, il referendum Segni del 1991 era espressione di un ampio movimento di opinione pubblica favorevole ad una semplificazione del quadro politico per indurre una maggiore stabilità delle maggioranze sottraendo l’assoluto arbitrio della scelta ai partiti e facendo esprimere gli elettori direttamente sulla scelta dei governi.
La legge del 1993 detta Mattarellum tentò di tradurre questa spinta in un sistema elettorale misto maggioritario-proporzionale, ma fu da subito avvertita come una tappa intermedia fra il vecchio proporzionale e un sistema diverso che, però, non si sapeva quale dovesse essere non essendoci pareri unanimi fra i partiti e gli esperti che alimentavano il dibattito pubblico e la ricerca teorica.
La legge del dicembre 2005 (l’attuale Porcellum) nacque da un patto fra Berlusconi e la Lega e rispondeva all’esigenza di garantirsi una rappresentanza del tutto sottratta al potere di scelta degli elettori che veniva attribuito ai vertici dei partiti grazie al sistema delle liste bloccate. Non solo, veniva introdotto, per la prima volta nella storia repubblicana, un premio di maggioranza che scattava non per lo schieramento che avesse raggiunto la maggioranza assoluta (50%+1), ma per la semplice maggioranza relativa (25%+1 nel caso di 4 concorrenti per esempio). Si trattava di una norma chiaramente anticostituzionale (nella sostanza se non nella forma) perché introduceva una sorta di conquista del potere assoluto a favore di una minoranza.
Le elezioni del 2006 si svolsero con questa legge elettorale. Ciò che è strano è che la maggioranza uscita dalle urne (il “famoso” governo dell’Unione guidato da Prodi), per quanto precaria e incerta, non agì con determinazione per cancellare questo obbrobrio come ci si sarebbe aspettato dando così l’idea che lo strapotere dei vertici dei partiti non dispiacesse ad alcuna delle forze politiche di maggior peso.
Così si arrivò alle elezioni del 2008 che furono stravinte da Berlusconi e furono anche quelle che riempirono il Parlamento di equivoci personaggi imposti da pure logiche di potere. Alcuni di costoro sono passati ben presto alle cronache giudiziarie che ne hanno messo in luce le caratteristiche “prepolitiche” ossia del tutto inclini a farsi gli affari propri. Altri, anzi, altre sono balzate in primo piano per le loro caratteristiche fisiche e per curriculum dove spiccava sempre una scelta diretta da parte del Capo supremo o per attività che non avevano nulla a che fare con la politica, bensì per la cura delle relazioni personali fra uomini e donne.
Un primo tentativo referendario fallì nel 2009 (referendum Guzzetta) perché gli italiani non andarono a votare. Un altro tentativo (iniziativa Passigli e altri) nato nella primavera del 2011 fu abbandonato per dare spazio alla proposta di referendum bocciata dalla Consulta ieri 12 gennaio.
Bisogna solo aggiungere che ogni anno dal 1991 in poi è stato sempre vigoroso il dibattito su quale sistema elettorale sostituire in via definitiva a quello proporzionale. Anche adesso fra i partiti e, all’interno di questi, fra le diverse componenti non vi è unità di vedute e continua in maniera surreale il confronto nel quale vengono tirati in ballo i modelli elettorali più diversi e stravaganti.
Da questo rapido riepilogo si capiscono alcune cose. La prima è l’incapacità della politica, quella che poi deve formulare le leggi e approvarle, di arrivare ad un punto di comune accordo. Le opinioni variano in base alle esigenze del momento di gruppi e componenti che ignorano del tutto la ricerca di un interesse comune ad adottare un sistema elettorale efficace e democratico. L’ignorano nei fatti anche se, a parole, tutti si proclamano interpreti della centralità degli elettori.
In questa confusione i tentativi referendari non riescono a riportare un po’ d’ordine per i limiti intrinseci dello strumento referendario e per la mancanza di una visione lungimirante e concreta.
Se questa ci fosse stata forse sarebbe stato meglio riservare alle aule universitarie e ai convegni le esercitazioni sulla possibilità di reviviscenza delle norme abrogate posta alla base dei referendum bocciati dalla Corte Costituzionale. Bisogna dirlo chiaro: i dubbi c’erano fin dall’inizio, ma i promotori erano sicuri della validità della loro tesi abituati, forse, più ai confronti dottrinari che alle battaglie politiche.
Con simili dubbi, forse, non si doveva promuovere una raccolta di firme che ha illuso gli italiani e attestarsi su una proposta referendaria di minore impatto, ma con maggiori possibilità di riuscita. Consapevoli che le nuove leggi non si scrivono con i referendum e che questi possono tutt’al più creare una situazione che rende indispensabile una nuova legge necessariamente da approvarsi in Parlamento. Diverso è il caso delle scelte nette che non richiedono leggi ulteriori: nucleare sì o no, aborto sì o no, divorzio sì o no. Come tuti sanno inn materia elettorale ciò non è ammesso.
Non aver tenuto conto di ciò e cioè delle reali possibilità dello strumento referendario in materia elettorale ha portato a sprecare un’occasione preziosa ed è inutile adesso prendersela con la Corte che deve decidere il più possibile in maniera “asettica” senza prendere parte altrimenti diventa un organismo politico il che non può essere. Certo le sue sentenze contengono sempre una visione politica, ma non legata alle strategie o alle esigenze di questo o quello schieramento.
È anche inutile adesso prendersela con il Parlamento di nominati che dovrebbe approvare una nuova legge elettorale. Bisogna solo riprendere il lavoro e “semplicemente” convincere decine di milioni di italiani a far sentire la loro voce e a far capire al Parlamento di nominati che i cittadini osserveranno le loro mosse e giudicheranno. Se funzionerà sarà più efficace di un referendum perché farà nascere una nuova cultura civica e una nuova maggioranza politica.
Claudio Lombardi
Per quanto riguarda la composizione del Parlamento pare utile ricordare, per quanto si evince dagli articoli 56 e 57 della Costituzione, che la distinzione tra Camera e Senato viene esaltata nella diversa composizione metodologica purtroppo persa dalle recenti riforme.Il Senato tradizionalmente si compone di rappresentanti eletti su base territoriale regionale con sistema maggioritario di collegio in modo che il territorio esprima sulla base di una prevalenza di interessi legati al territorio.La Camera come nella sua originaria concezione invece dovrebbe rappresentare le opinioni politiche dei cittadini indipendentemente dal territorio e dai collegi pertanto le liste di candidati con voto di preferenza dovrebbero essere presenti su scala nazionale (con rispetto delle norme di presentazione delle liste) con sistema proporzionale puro e fondamentalmente con collegio unico nazionale ,questo anche perchè poi non sorprendiamoci della crescita di forze con tendenze separatiste o localistiche,ciò è solo la logica conseguenza della mancata rappresentanze di un organo di unità nazionale ,un pò come se i consiglieri del comune non venissero scelti da liste comunali ma ogni quartiere scegliesse il proprio rappresentante, credo dopo qualche anno la politica comunale si ridurrebbe a una guerra tra quartieri ed è quello che sta accadendo in italia…allora che si finisca di fare ipocriti festeggiamenti per il 150esimo e che si faccia invece qualcosa di utile per salvare l’integrità nazionale ,si può andare in europa ugualmente anzi meglio,con la composizione dei Deputati della Camera su base nazionale di voti e preferenze.
Non si conoscono ancora le motivazioni della Corte Costituzionale, ma, come ha detto Stefano Rodotà, ieri sera (12 gennaio 2012) al programma della Gruber, sono due i motivi – presumibilmente – che hanno indotto la Consulta a dichiarare inammissibili i due referendum elettorali.
Il primo, che la Consulta si è sempre pronunciata, dichiarando l’insussistenza di una legge sostituita da un’altra nella stessa materia, e ogni pronuncia deve porsi in una linea di coerenza con le altre.
Il secondo, che i referendum – in Italia – hanno solo carattere abrogativo.
Il rischio, neanche tanto teorico a questi lumi (oscuri) di luna, sarebbe stato di celebrare un referendum che avrebbe portato all’abrogazione del Calderolum (dal padre del Porcellum), lasciando il nostro Paese – qualunque cosa si pensi – senza neppure un porcellum di legge elettorale.
Piergiorgio Odifreddi – anche lui! – rimproverava oggi (13 gennaio) la Consulta di non aver ammesso i due referendum, non riconoscendo l’incostituzionalità del Porcellum, ma credo che la Corte non fosse chiamata a pronunciarsi su quest’ultimo profilo, ma sull’ammissibilità delle prove referendarie.
Vogliamo associarci anche noi al coro all’unisono di chi accusa di politicità la Corte Costituzionale e anche qualcun altro?
O,forse, come mi sembra adombri anche Claudio Lombardi, non sarebbe il caso di un esame di coscienza per tutti gli attori del nostro sistema (con qualche virgoletta) democratico, compresi i politici che hanno promosso i referendum e i cittadini che hanno firmato o non firmato, ecc. ecc.?