Salario minimo o taglio del cuneo fiscale?
Un articolo di Paolo Naticchioni tratto da www.lavoce.info
Sintesi: la legge di bilancio rende strutturale il taglio del cuneo fiscale. Il sostegno dei salari bassi sarebbe garantito anche dal salario minimo e ne deriverebbe una spinta alla crescita dei redditi superiori al minimo e un’altra alla ricerca di una maggiore produttività. Scegliendo di pagare con soldi pubblici il sostegno ai redditi si tolgono risorse alla sanità, all’istruzione, alla giustizia, alle forze dell’ordine e a molto altro.
Il taglio del cuneo fiscale
La bozza di legge di stabilità per il 2025 prevede la conferma strutturale del cosiddetto esonero contributivo per i lavoratori con redditi fino a 40 mila euro (innalzando la soglia precedentemente fissata a 35 mila euro). Le modalità sono diverse: invece di una dispensa contributiva per tutti i beneficiari, si prevede una combinazione di indennità esenti da imposte per chi ha redditi fino a 20 mila euro e un sistema di detrazioni fiscali per i redditi fino a 40 mila euro. La spesa annua richiesta dalla misura ammonta a circa 10 miliardi di euro e, considerando che è stata introdotta nel 2022, nel 2025 la spesa complessiva sarà pari a circa 40 miliardi di euro.
La logica alla base della sua introduzione rimandava all’aumento dell’inflazione a seguito del conflitto russo-ucraino e la conseguente crisi energetica. Il suo rinnovo per quattro anni conferma che l’attenzione di questo governo, come dei precedenti, è rivolta al tentativo di mitigare le perdite del potere d’acquisto, soprattutto per i redditi medio-bassi. L’esonero, chiamato anche genericamente nella legge di stabilità “taglio del cuneo fiscale”, si riferisce a una parte dei contributi previdenziali a carico del lavoratore e per questo motivo si assume che andrà ad aumentare i redditi da lavoro dei lavoratori. In aggiunta, in questi anni sono state introdotte decontribuzioni a carico della quota contributiva datoriale, per categorie svantaggiate nel mercato del lavoro (giovani, donne, Sud), che nel 2022 impiegavano altri 7,5 miliardi di risorse pubbliche (alcune sono ancora vigenti). Una valutazione portata a termine su tali decontribuzioni evidenzia un impatto occupazionale positivo, mentre incerto si era dimostrato essere l’impatto sulle retribuzioni. Il sostegno finalizzato ad aumentare i bassi redditi da lavoro e la relativa occupazione, pertanto, richiede risorse pubbliche per più dei 10 miliardi legati all’esonero contributivo, considerando tutte le tipologie di decontribuzioni.
Perché è necessario un sostegno salariale
In Italia una politica di sostegno salariale è necessaria, in quanto i salari sono stabiliti attraverso la contrattazione collettiva, che non è riuscita in questi anni ad accelerare il processo dei rinnovi contrattuali per compensare gli aumenti dell’inflazione. Circa il 50 per cento dei lavoratori è associato a contratti collettivi nazionali scaduti e il tempo medio di attesa per il rinnovo è addirittura aumentato significativamente nel corso del 2023 (da 20,5 a 32,2 mesi, si veda qui). Probabilmente ciò è dovuto anche all’atteggiamento attendista dei rappresentanti delle imprese mirato a ridurre il costo del lavoro. Solo pochi settori hanno portato a termine rinnovi salariali importanti, il metalmeccanico e il bancario. Anche nel settore pubblico, dove il governo dovrebbe teoricamente poter intervenire con maggior celerità, la trattativa di rinnovo è stata appena finalizzata, a crisi inflazionistica conclusa.
L’autorevole Employment Outlook 2024 dell’Ocse conferma che la crisi del potere d’acquisto dei lavoratori è stata particolarmente forte in Italia, dove si è verificato uno dei cali più significativi del valore reale dei salari, -9 per cento nel terzo trimestre del 2023 rispetto al 2019, il quarto peggior dato tra i 35 paesi Ocse. Sempre l’Ocse suggerisce che durante la crisi inflazionistica il calo dei salari reali si è accompagnato a un aumento dei profitti per le imprese.
Cosa è successo negli altri paesi che hanno subito una crisi inflattiva simile a quella italiana? Lo stesso studio Ocse mostra che in tutti i trenta paesi dell’Organizzazione dotati di salari minimo, i governi o le parti sociali hanno alzato il loro importo per proteggere, e in alcuni casi persino aumentare, il potere d’acquisto dei salari più bassi. In questi paesi l’aumento del salario minimo è legato a meccanismi automatici di indicizzazione (come in Francia, per esempio) oppure è stato realizzato grazie all’intervento discrezionale dei governi (come in Germania e Spagna). L’Ocse evidenzia che il salario minimo ha raggiunto nel 2024 un valore reale superiore a quello della fine del 2019 praticamente in tutti i paesi, con un aumento medio del 12,8 per cento, con l’effetto di più che compensare l’inflazione. Inoltre, l’aumento del salario minimo ha generato, a cascata, una crescita dei livelli salariali superiori ma vicini al minimo, determinando un aumento dei redditi per una ampia platea di lavoratori.
Il messaggio principale che se ne ricava è che la contrattazione collettiva, per sua natura basata sull’interazione tra le parti sociali, comporta tempi di rinnovo contrattuale decisamente lunghi, soprattutto in periodi di crisi inflattiva, anche con governi favorevoli a un aumento dei salari medio-bassi. Al contrario, il salario minimo è più facilmente controllabile dai governi e quindi l’aggiustamento può essere immediato (talvolta realizzato anche in modo automatico) o comunque realizzabile in tempi più brevi.
Un costo insostenibile per le imprese?
Ma l’introduzione, o l’aumento, del salario minimo distrugge lavoro e peggiora le dinamiche di impresa? Su questo punto la letteratura economica disponibile è ampia e consolidata e mostra come aumenti ‘ragionevoli’ (cioè non troppo marcati) del salario minimo determinino impatti nulli o talvolta addirittura positivi sull’occupazione. David Card ha vinto il premio Nobel anche grazie al suo contributo su questo tema nel 1994, e più di recente altri economisti hanno confermato questo risultato.
In più, questi studi hanno consentito di individuare alcuni meccanismi grazie ai quali non si è avuta una riduzione dell’occupazione. In primo luogo, poiché il mercato del lavoro sovente non è perfettamente competitivo ma monopsonistico (un solo venditore e tanti compratori ndr). Semplificando, mentre nel mercato competitivo si assume che gli agenti economici (imprese e lavoratori) non abbiano il potere di incidere sulla fissazione del salario competitivo, nel monopsonio le imprese detengono un potere di mercato (maggiore rispetto ai lavoratori) che può permettere loro di ridurre i salari al di sotto del salario concorrenziale. In un contesto di monopsonio si dimostra che un incremento del salario minimo può far crescere l’occupazione. In secondo luogo, le imprese realizzano interventi mirati ad aumentare la produttività per tener conto dei maggiori costi del lavoro derivanti dall’aumento del salario minimo e la riallocazione aziendale aumenta la mobilità di lavoratori da imprese a bassa produttività verso imprese più produttive e di maggiori dimensioni. Per il nostro paese anche questa riallocazione è di estremo interesse, essendo la produttività stagnante negli ultimi decenni, e tra le cause più richiamate nel dibattito vi è l’alta incidenza nel mercato del lavoro italiano di piccole imprese a bassa produttività.
Questa discussione va poi a incrociarsi con un altro tema di estremo rilievo per il nostro paese, il livello di debito pubblico molto elevato, con impegni di rientro, definiti dall’attuale governo nel piano strutturale di bilancio, decisamente ingenti che richiederanno “lacrime e sangue” nei prossimi anni (come emerge già in questa legge di bilancio). Mentre in altri paesi dotati di salario minimo, l’aggiustamento dei salari reali non ha avuto un impatto sul debito pubblico, in Italia ciò è avvenuto, e avverrà, totalmente a carico delle risorse pubbliche, appunto con lo sgravio contributivo, dal 2022 al 2025, per circa 40 miliardi (e anche di più considerando le altre decontribuzioni su giovani, donne, Sud).
In un contesto così complesso, ci si potrebbe chiedere perché l’Italia non abbia scelto di integrare la contrattazione collettiva con un salario minimo ‘ragionevole’. Probabilmente, si sarebbero presi appunto ‘N’ piccioni con una fava: l’aumento dei bassi salari, il risparmio di risorse pubbliche, un processo di riallocazione verso imprese migliori, un aumento della produttività, la riduzione dei profitti (e degli extraprofitti).
Su questo aspetto il livello dello scontro politico, con le associate componenti ideologiche, ha giocato e gioca un ruolo determinante. La proposta di introduzione del salario minimo è stata per anni il cavallo di battaglia di una delle due parti politiche (dapprima del Movimento 5 stelle, con successiva adesione del Partito democratico), e pertanto non poteva essere presa in esame dall’altra parte politica (l’attuale maggioranza di governo), anche se alcune ricadute positive, soprattutto in termini di esborso di risorse pubbliche, sono evidenti. Non potendo dialogare su questo punto, l’attuale maggioranza ha continuato a sostenere la contrattazione collettiva in opposizione al salario minimo, non considerando il fatto che le due possono tranquillamente coesistere, come accade in Germania. Il sostegno incondizionato alla contrattazione collettiva in contrapposizione al salario minimo è stato caratterizzato da argomentazioni deboli, senza solide basi scientifiche, e alla fine l’argomento è stato accantonato. Peraltro, il rafforzamento della contrattazione collettiva avrebbe potuto rappresentare una strada alternativa valida per l’Italia; tuttavia, le riforme auspicate in tema di rappresentanza, riduzione dei tempi di rinnovo, contenimento dei contratti “pirata” e rispetto dei minimi retributivi dei contratti collettivi nazionali non sono ancora state realizzate, né sembrano essere più al centro del dibattito.
Soprattutto quando si è chiamati a “stringere la cinghia”, le conseguenze di uno scontro politico non pragmatico vengono a galla: se nella scuola si prevede una riduzione del numero di docenti e nella sanità le assunzioni saranno rimandate al 2026, con ulteriori allungamenti delle liste di attesa, la ragione sta anche nel fatto che circa un euro su tre in questa legge di bilancio è destinato ad aumentare i redditi da lavoro medio bassi. Questa esigenza avrebbe potuto invece essere realizzata intervenendo in modo strutturale sulle regole del mercato del lavoro e sul sistema di fissazione dei salari: nonostante le evidenti criticità del sistema, la struttura di fondo della contrattazione collettiva è ancora quella della riforma del 1992-1993.
La principale conclusione che possiamo trarre da quanto precede è che l’immobilismo su un tema oggetto di forte scontro politico, come quello del salario minimo e della contrattazione collettiva, comporta conseguenze dannose per il debito pubblico e per i servizi ai cittadini. Il taglio del cuneo fiscale reso strutturale dalla legge di bilancio 2025, da molti osservatori celebrato come un segnale positivo, rappresenta in realtà una cattiva notizia, in quanto il governo si impegna in modo strutturale a sostenere i bassi salari con risorse pubbliche: si tolgono finanziamenti a istruzione, sanità, giustizia, forze dell’ordine e altro ancora, invece di introdurre le tanto auspicate, ma mai realizzate, riforme strutturali.
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