Siria Iraq: le radici dell’odio
Possiamo averne un immenso terrore, odiarlo, volerlo combattere in ogni modo, ma prima di tutto l’Isis va compreso. E per comprenderlo occorre andare laggiù dove è nato, nelle regioni sunnite del Medio Oriente. È vero che oggi c’è anche un Isis occidentale, radicato nelle banlieue parigine, in settori infimi dei musulmani europei, figlio del retaggio di Al Qaeda e della marginalizzazione. Ma le radici di ciò che è cresciuto negli ultimi anni sono da individuare tra Iraq e Siria.
Isis nasce principalmente in Iraq. E questo avviene ben prima della sua clamorosa presa di Mosul il 10 giugno del 2014 contro l’esercito iracheno che si sbanda, fugge nelle zone curde e lascia sul terreno il meglio degli arsenali donati dagli americani. Le sue origini vanno cercate nell’invasione Usa dell’Iraq nel 2003 e nell’incapacità di gestire il dopo Saddam. In pochi mesi le speranze di rinascita e democrazia per il Paese, già minato dall’embargo e dal pugno di ferro dell’ex dittatura, sprofondano in una sanguinosa guerra civile e religiosa che si trascina sino a oggi. Alle prime libere elezioni gli sciiti (circa il 65 per cento della popolazione) creano il loro governo. Il fallimento è subito evidente: invece di cooperare con l’agguerrita minoranza sunnita (il 30 per cento), la emarginano, perseguitano, impoveriscono.
L’apparato statale cade nelle mani delle tribù e dei partiti sciiti. Esercito e polizia diventano milizie sciite che irrompono nelle regioni sunnite, uccidono, arrestano impunemente, spesso rapinano e sequestrano. In breve tempo i sunniti, che dall’inizio della dominazione ottomana, quasi cinque secoli fa, erano stati classe dirigente, diventano una minoranza paria.
La loro reazione è violenta. Sono abituati a fare la guerra. Gli ex generali baathisti reclutano il vecchio esercito messo in pensione dagli americani e poi decimato dagli sciiti. Entrano quasi subito in campo gli attori regionali. L’Iran, nemico storico contro cui Saddam Hussein ha combattuto otto anni di guerra, arriva a Bagdad trionfante. Tanti leader sciiti, tra cui lo stesso ex premier Nouri al Maliki, sono stati in esilio lunghi anni a Teheran, l’alleanza è subito stretta, s’impone l’egemonia iraniana. Inevitabilmente i sunniti stringono i già forti legami con gli Stati sunniti, Arabia Saudita in testa. Da Falluja e Ramadi si allargano le antiche piste cammelliere che attraverso il deserto arrivano a Riad. Al Qaeda prima e Isis poi diventano così il braccio armato di questo nuovo fronte che mira a cacciare l’Iran nel suo confine, ben oltre il Tigri. Si noti che per i baathisti l’alleanza con Isis è per lo più strumentale. «Quando avremo vinto, ce ne libereremo», dicono. Ma intanto ne sono succubi alleati.
Gli alawiti di Assad
I sunniti iracheni fuggono in massa in Siria. E qui si trovano quando, nella primavera del 2011, esplodono le rivolte contro il regime alawita (una setta sciita) di Bashar Assad. Al contrario che in Iraq, in Siria la maggioranza sunnita è in guerra con la minoranza sciita (il 12 per cento della popolazione). Esercito e polizia siriani reagiscono con la consueta brutalità: rapimenti, torture, esecuzioni di massa, bombardamenti a tappeto, anche con armi chimiche, contro popolazioni inermi. La repressione durissima è tra la cause maggiori della crescita del fondamentalismo islamico tra i sunniti siriani. Cui si aggiunge la liberazione dei prigionieri accusati di militare tra i gruppi radicali jihadisti. Assad utilizza Isis per criminalizzare l’intera opposizione.
In parte il suo piano ha successo, visto che Barack Obama rinuncia all’intervento militare in Siria anche a causa della presenza di Isis tra i gruppi ribelli. Ma Isis resta una brutta bestia da controllare. Oggi probabilmente una buona parte dei ribelli sunniti in Siria dovendo scegliere tra Isis e Assad opterebbe per quest’ultimo, cosa che invece non pensano i sunniti iracheni nei confronti del governo di Bagdad.
Lorenzo Cremonesi tratto dal Corriere della Sera del 20 novembre 2015
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