Una vergogna italiana: il caso Tortora

Quello che segue è il racconto del caso Tortora ripreso da fonti pubbliche. Il più famoso e vergognoso errore giudiziario dell’Italia repubblicana compie quarant’anni e tocca aspetti del problema giustizia che sono sempre attuali: lo strapotere incontrollato dei PM che tutto possono e non pagano mai per i loro errori e il ruolo del mondo dell’informazione.  Si discute oggi di una piccola restrizione alla pubblicazione delle intercettazioni non essenziali alle indagini e ai processi e il mondo dell’informazione strilla al bavaglio rivendicando come diritto l’arbitrio di mettere alla gogna le vite degli altri e identificando il suo interesse di aumentare la propria visibilità e i propri guadagni con il valore della libertà dell’informazione. Nel 1983 ancora non si era formato il circuito procure-giornalisti amici che tanti danni ha fatto negli anni successivi, ma già esisteva il potere di svolgere i processi e creare i colpevoli sulle pagine dei giornali e in tv. Ovviamente i magistrati che hanno incolpato e poi condannato Enzo Tortora senza nessuna prova e, anzi, omettendo doverosi controlli sulle dichiarazioni dei pentiti (unico capo d’accusa) non sono stati puniti e hanno continuato nelle loro prestigiose carriere. 

Una parola va detta sul complice occulto dei processi mediatici: l’opinione pubblica che assiste e si compiace dello spettacolo che i giornalisti le offrono. Le parole che scrisse Leonardo Sciascia nel 1987 sono ancor più valide oggi:

«Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa in “innocentisti” e “colpevolisti” – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommette su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare».

Le accuse e l’arresto

Alle 4 di notte del 17 giugno 1983 Enzo Tortora fu tratto in arresto dai Carabinieri e gli fu notificata l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Le accuse si basavano sulle dichiarazioni dei pregiudicati Giovanni Pandico, Giovanni Melluso (soprannominato “Gianni il bello”) e Pasquale Barra, legato a Raffaele Cutolo; inoltre, altri 8 imputati nel processo alla cosiddetta Nuova Camorra Organizzata, tra cui Michelangelo D’Agostino, pluriomicida detto “Killer dei cento giorni”, accusarono Tortora. A queste accuse si aggiunsero quelle, rivelatesi anch’esse in seguito false, del pittore Giuseppe Margutti, già pregiudicato per truffa e calunnia, e di sua moglie Rosalba Castellini, i quali dichiararono di aver visto Tortora spacciare droga negli studi di Antenna 3; si contarono così tredici false testimonianze e, in totale, i pentiti che accusarono Tortora assommarono a 19.

Gli elementi “oggettivi”, di fatto, si fondavano unicamente su un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista, Giuseppe Puca detto O’Giappone, recante scritto a penna un nome che appariva essere, inizialmente, quello di Tortora, con a fianco un numero di telefono; il nome, ad esito di una perizia calligrafica, risultò non essere quello del presentatore, bensì quello di un tale Tortona. Nemmeno il recapito telefonico risultò appartenere al presentatore. Cioè l’unico “straccio” di prova non fu nemmeno verificato.

Si stabilì, per giunta, che l’unico contatto avuto da Tortora con Giovanni Pandico fu a motivo di alcuni centrini provenienti dal carcere in cui era detenuto lo stesso Pandico, centrini che erano stati indirizzati al presentatore perché venissero venduti all’asta del programma Portobello. La redazione di Portobello, oberata di materiale inviatole da tutta Italia, aveva smarrito i centrini ed Enzo Tortora scrisse una lettera di scuse a Pandico. La vicenda si era poi conclusa, o così pareva, con un assegno di rimborso del valore di 800.000 lire. Pandico, schizofrenico e paranoico, maturò sentimenti di vendetta verso Tortora, e iniziò a scrivergli delle lettere che pian piano assunsero carattere intimidatorio a scopo di estorsione.

L’indagine

L’indagine nella quale fu coinvolto il presentatore era in realtà il frutto di una maxi-inchiesta che si concluse con una retata nella quale, compreso quello di Tortora, furono 856 gli arresti eseguiti contemporaneamente in 33 province italiane fra Bolzano e Palermo, oltre che in Sardegna (250 furono subito rilasciati perché arrestati per errore).

Il Procuratore Capo di Napoli, Francesco Cedrangolo, insieme agli investigatori, comunicò che le indagini avevano richiesto la redazione di un rapporto di 3.800 pagine. Fu subito diffusa la notizia che il Barra aveva accusato Tortora di spacciare droga nel mondo dello spettacolo a tranche da 80 milioni di lire l’una. Cedrangolo, alla domanda diretta sulla certezza che Barra avesse detto la verità e che le sue accuse avessero tutte fondamento, rispose: «Non abbiamo l’abitudine di emettere ordini di cattura senza motivo» e «Tutte le affermazioni raccolte sono state sottoposte in questi mesi a controlli accurati». Ovviamente non era vero come il prosieguo del processo dimostrò.

L’impatto sui mass media

«È facile, scampanando retorica e solleticando un mai sopito plebeismo, fare apparire una vittima come un privilegiato.» (Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera, 1985)

Come ricorda lo storico della televisione Aldo Grasso, “le reti Rai mandarono in onda ininterrottamente e senza pietà le immagini del conduttore ammanettato”. Tortora fu attaccato anche nell’ambiente giornalistico, furono pubblicate storie false per falsi scoop, ne fu posta sotto attacco l’immagine umana e professionale.

La giornalista Camilla Cederna, che nel 1969 aveva difeso con decisione l’anarchico Pietro Valpreda ingiustamente accusato per la strage di Piazza Fontana, si pronunciò per la colpevolezza: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto». Una affermazione di stupida ottusità e vergognosa per una giornalista come lei.

La stragrande maggioranza dei media scelse in quei mesi di rappresentare Enzo Tortora come un criminale, tanto più disprezzabile in ragione della sua grande popolarità. Non c’erano prove contro di lui ma a nessuno sembrava importare.

Poche eccezioni a questa regola spietata: Piero Angela, Enzo Biagi, Federico Fellini, Giorgio Bocca, Stefano Rodotà, Leonardo Sciascia, Indro Montanelli, Pippo Baudo. E Vittorio Feltri, che per primo (e unico), mentre il processo era in corso, prese l’iniziativa di chiamare il famoso numero di telefono contenuto nell’agendina di Giuseppe Puca e attribuito a Tortora, per scoprire che apparteneva a tutt’altra e ignara persona; e che verificò che il giorno in cui sosteneva d’aver consegnato a Tortora una scatola di scarpe piena di droga il pentito Gianni Melluso si trovava in realtà nel carcere di massima sicurezza di Campobasso.

La condanna

Il 17 gennaio 1984 vennero concessi gli arresti domiciliari e il giorno seguente Tortora, dopo 271 giorni di carcerazione, poté lasciare il carcere di Bergamo, dove era rinchiuso dal 14 agosto, per la sua casa a Milano.

Il 7 maggio 1984 Enzo Tortora accettò di candidarsi eurodeputato nelle liste del Partito Radicale, che ne sostenne le battaglie giudiziarie, e il 17 giugno, a un anno esatto dal suo arresto, fu eletto al Parlamento europeo. Raccolse in totale 414.514 preferenze, risultando eletto in due circoscrizioni.

Il 20 luglio 1984 Tortora tornò libero e si recò subito al carcere di Bergamo a salutare il personale. Tre giorni dopo era a Strasburgo. Il 17 settembre 1985 fu condannato a dieci anni di carcere, principalmente per le accuse di altri pentiti. Il 26 aprile 1985, il procuratore Diego Marmo, parlando di Tortora in aula lo definì «cinico mercante di morte».

Il 13 dicembre 1985 si dimise da europarlamentare e, rinunciando all’immunità parlamentare, dal 29 dicembre fu messo agli arresti domiciliari.

Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora fu assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli e i giudici smontarono in tre parti le accuse rivoltegli dai camorristi, per i quali iniziò un processo per calunnia: secondo i giudici, infatti, gli accusatori del presentatore – quelli legati a clan camorristici – avevano dichiarato il falso allo scopo di ottenere una riduzione della loro pena. Altri, invece, non legati all’ambiente carcerario, avevano il fine di trarre pubblicità dalla vicenda: era, questo, il caso del pittore Giuseppe Margutti, il quale mirava ad acquisire notorietà per vendere i propri quadri.

Enzo Tortora con le figlie Silvia (a sinistra) e Gaia

L’assoluzione

Così, in una intervista concessa al programma La Storia siamo noi, in una puntata dedicata specificamente al “caso Tortora”, il giudice Michele Morello raccontò il suo lavoro d’indagine che avrebbe poi portato all’assoluzione del popolare conduttore televisivo:

«Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie… E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro e concludendo la sua difesa con una frase pungente: «Io grido: “Sono innocente”. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi.»

Tortora fu assolto definitivamente dalla Corte di cassazione il 13 giugno 1987, a quattro anni dal suo arresto.

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