Una voce diversa sul cuneo fiscale

Uno dei temi più dibattuti è quello del cuneo fiscale che peserebbe sulle tasche dei lavoratori dipendenti e che lo Stato dovrebbe alleggerire. Un articolo di Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali tratto dal sito: www.itinerariprevidenziali.it esprime un diverso punto di vista.

Potremmo chiamarla “la grande truffa” quella che si gioca attorno all’ormai mitico “cuneo fiscale e contributivo: per il semplice motivo che il cuneo esiste ma non c’è. E se i “truffati” sono tutti i giovani lavoratori, le future generazioni e gli italiani onesti che pagano tasse e contributi, i truffatori sono tutte le parti sociali cui si sono accodati, pur di raccattare qualche consenso, i politici in modo bipartisan.

Perché esiste ma non c’è? Perché la differenza tra il costo per l’azienda e quello che il lavoratore si trova netto in busta paga è sì elevata ma quasi totalmente comunque destinata, in modo indiretto o differito, al dipendente; soldi o benefici che incassa a seguito di quanto previsto dai contratti nazionali. E perché è una “truffa”? Perché tutti i promotori di questo mantra, a partire dai vertici delle parti sociali e dei partiti, sanno benissimo, o dovrebbero sapere, che almeno il 75% dei lavoratori dipendenti, cioè quanti dichiarano fino a 26mila euro lordi l’anno, non può certo dirsi oppresso dalle tasse.

Si prenda a riferimento il 2019 perché il 2020 per il gettito fiscale e i redditi è ancora peggio. I lavoratori con redditi fino a 15mila euro lordi l’anno hanno un’IRPEF negativa (vanno a credito); fino a 26mila euro pareggiano grazie al TIR (Trattamento Integrativo del Reddito) introdotto in ampliamento dell’ex bonus Renzi, e all’AUUF, mentre pagano qualcosa di IRPEF dopo i 26mila euro, lasciando comunque la gran parte del carico fiscale a chi dichiara da 35 mila euro lordi in su. Contribuenti che anche con l’efficiente Governo Draghi non hanno beneficiato di nulla. Quindi, per ridurre il “cuneo”, Letta – con il plauso di industriali e sindacati – si è buttato sull’unico istituto che poteva, la decontribuzione, promettendo addirittura una quattordicesima mensilità. E sta qui la “truffa”. Pur di dare qualche spicciolo in più in busta paga, incapaci di un minimo di politiche del lavoro e industriali, si propone di mettere a carico dello Stato, e quindi di tutti, una parte del 9,19% di contributi a carico del lavoratore dipendente, senza però ridurre la futura pensione, incuranti del fatto che, per garantire la sola sanità ai redditi fino a 26mila euro, gli altri contribuenti devono mettere sul piatto 52 miliardi l’anno, cioè la differenza tra il costo pro capite della sanità (1.930 euro nel 2019) e quello che pagano di IRPEF. Tutto il resto e tutti i servizi, scuola compresa, sono letteralmente gratis a debito o a carico di quel 13,07% di nuovi “schiavi” che dichiara più di 35 mila euro.

Ma analizziamo la proposta Partito Democratico. Il contributo previdenziale a carico dei lavoratori dipendenti è pari al 9,19% della retribuzione annua lorda (RAL). Per un reddito di 15 mila euro lordi l’anno tale contributo è pari a 1.378,5 euro, mentre la retribuzione per 13 mensilità è pari a 1.153,8 euro mese: quindi, per garantire una mensilità in più, occorrerebbe uno sconto di 7,5 punti di contribuzione (quasi tutta), con un costo di 6,24 miliardi strutturali l’anno che diventerebbero quasi 9 se si estendesse lo sconto anche ai redditi tra 15 e 20mila euro e quasi 19 miliardi se lo si volesse estendere anche ai redditi tra i 20 e i 29mila euro. Il che raddoppierebbero il disavanzo INPS.

Ma cos’è il cuneo fiscale e contributivo? Si tratta della differenza tra lo stipendio netto in busta paga e il costo sostenuto dall’azienda, che comprende sia imposte e contributi pagati da lavoratori e imprese sia i cosiddetti “istituti contrattuali” che gravano sul costo del lavoro. Ad esempio, un lavoratore con un reddito fino a 26mila euro, fatto 100 quello che prende in busta, paga il 9,19% in contributi pensionistici e sul restante 90,8%, in media, circa 425 euro annui di IRPEF, cioè 32 euro al mese, grazie a deduzioni e detrazioni. Restano 88 euro. Il 100 in busta paga del dipendente, al datore di lavoro costa circa invece 135 per via dei contributi versati all’INPS, previdenziali (23,8) e per le prestazioni temporanee (malattia, maternità, disoccupazione etc), e all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni. La differenza tra netto e costo azienda è pari a 1,53 volte. Vista l’inesistenza del cuneo fiscale, quello contributivo è riducibile? No, perché meno contributi pagati significano una futura pensione ridotta o, in alternativa, una rinuncia (anche solo parziale) a quelle grandi conquiste sociali che oggi garantiscono un salario se qualcuno si ammala, diviene inabile, infortunato, invalido, disoccupato oppure usufruisce di maternità o paternità.  E il resto della differenza tra il netto in busta paga e il costo azienda, che arriva a 2,2 volte, si può ridurre? Si prenda ad esempio il contratto commercio e servizi. Su ogni ora lavorata occorre caricare i costi di cui beneficiano i lavoratori: tredicesima e quattordicesima mensilità, il premio di risultato previsto nei contratti territoriali o aziendali (circa mezza mensilità), il TFR (in pratica una mensilità), le ferie e festività (più di un mese), i costi per l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa e quello per il fondo pensione. In totale, il nostro 1,53 volte passa appunto a oltre 2,2 volte.

È persino evidente che su questo fronte è impossibile ridurre il costo del lavoro, perché tutto va a beneficio del lavoratorein modo diretto (i soldi della tredicesima e della quattordicesima mensilità, il TFR, il premio di risultato) o indiretto (fondo pensione, assistenza sanitaria, contributi all’INPS, assicurazioni sociali e così via). Riduciamo le ferie, eliminiamo la quattordicesima? Ovvio che no! E allora ecco la “truffa“: riduciamo di 2 o 3 punti i contributi al lavoratore a parità di pensione e mettiamo il costo a carico dei contribuenti, che già oggi pagano circa 24 miliardi l’anno per tutte le decontribuzioni gentilmente concesse da politica e parti sociali. Alla faccia del debito pubblico che lievita e del futuro del Paese!

La grande novità che potrebbe finalmente risolvere la questione senza grandi costi per lo Stato, e senza ingenti oneri per le future pensioni, è stata introdotta da Draghi con i 600 euro esenti da tasse e contributi e i 60 euro del bonus trasporti. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha incrementato tale importo fino a 3.000 euro per il 2022, oltre al buono benzina da 200 euro. Tutto ciò significa che i redditi fino a 26mila euro avranno di colpo un incremento del 15% netto, che consentirà loro di recuperare ampiamente l’inflazione e la perdita di potere reale d’acquisto dei salari del 2,9% che l’Italia, unico Paese in UE, ha avuto negli ultimi 30 anni. Ora mancano solo un raccordo con il welfare aziendale, una semplificazione delle procedure e un aumento dei buoni pasto elettronici.

E la “grande truffa”, dopo la proroga della decontribuzione per il 2023, speriamo finisca.

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