Giustizialismo finito per le scuse di Di Maio? No, c’è sempre

La lettera di scuse di Di Maio rivolta a Simone Uggetti l’ex sindaco di Lodi incarcerato, processato e infine assolto in appello ha suscitato, come è giusto che sia, tanti commenti. L’assoluzione di Uggetti, però, è stato solo uno dei tanti episodi nei quali l’intreccio tra magistratura inquirente, stampa e politica ha “prodotto” dei colpevoli da gettare in pasto al disprezzo dell’opinione pubblica per ricavarne benefici in termini di notorietà e di consensi elettorali. Infatti, il cuore del ragionamento di Di Maio è indicato da lui stesso con grande chiarezza: “l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale”. Con questa frase Di Maio descrive un’epoca storica che va anche al di là della nascita e dell’enorme successo del M5s.

Innanzitutto la gogna. Di Maio la esemplifica così: “campagne social, sit-in di piazza, insinuazioni, utilizzo di frasi al condizionale che suonano come indicative”. Il tutto induce “l’imbarbarimento del dibattito associato ai temi giudiziari” che produce “scandali in prima pagina, al centro del dibattito nazionale per mesi, chiusi con una assoluzione di cui non c’è traccia quasi da nessuna parte”. Una sintesi lucida e incontestabile che ha un profondo significato politico e ha implicazioni inevitabili, quantunque non espresse, in termini istituzionali.

Chi ha voluto e perché l’imbarbarimento del dibattito politico associandolo ai temi giudiziari? Lo stesso Di Maio ci indica come movente le campagne elettorali. Per molti anni, di fatto, era sufficiente una qualunque ipotesi di reato sulla quale muovere un’indagine per mettere in moto una macchina mediatica micidiale capace di distruggere la reputazione delle persone e la carriera dei politici. Bastava un’indagine avviata per sancire la disfatta di una forza politica e la vittoria di altre che si facevano interpreti della rabbia popolare da loro stesse suscitata. E tutto grazie alla “collaborazione” indotta, casuale o ricercata di Pm in cerca di visibilità. Basta vedere cosa è accaduto dal 1992 ad oggi per rendersi conto che, da allora ad oggi, c’è un protagonista assoluto che ha avuto un potere superiore al suo ruolo: le procure e singoli Pm. Sabino Cassese afferma che i magistrati inquirenti hanno trasformato la loro funzione in un nuovo potere dello Stato che viola la Costituzione.

Sarebbe, dunque, meglio non parlare di fine del populismo perché la macchina che produce colpevoli da dare in pasto all’opinione pubblica è sempre in funzione. La gogna, versione civilizzata del linciaggio, è diventata la modalità di funzionamento ordinaria dei procedimenti giudiziari  e basta poco per scatenarla: un Pm fa partecipe la stampa delle sue convinzioni e questa le diffonde al “mondo” che così ha i colpevoli che servono. Il clamore mediatico è ormai un requisito indispensabile di ogni indagine di una qualche rilevanza. Se poi sono coinvolti dei politici il clamore aumenta e così il condizionamento dell’opinione pubblica. I Pm parlano, si fanno conoscere ed alcuni poi capitalizzano la loro notorietà presentandosi alle elezioni come rappresentanti del popolo. Questa è la radice del populismo.

Ciò detto non bisogna commettere l’errore di ignorare l’esistenza dei reati e di qualcuno che li commette. I critici del populismo e del giustizialismo sembrano, a volte, dimenticare che il protagonismo dei Pm e il “circo mediatico giudiziario” hanno preso le mosse da una degenerazione reale. Tangentopoli non è stata un’invenzione. Non lo è stata la corruzione né le collusioni con la criminalità mafiosa e nemmeno gli sfregi all’ambiente coperti attivamente o tollerati da chi siede nelle istituzioni. Essere contro la gogna non significa assolvere comportamenti, pratiche e scelte, politiche ed amministrative, che hanno reso più povero e meno vivibile il nostro Paese. È la gogna che va evitata non il contrasto alle malefatte commesse in nome di interessi politici o personali. Si può capire che, a un certo punto, alcuni magistrati abbiano pensato di evocare il sostegno dell’opinione pubblica per contrastare pratiche illecite che apparivano come un sistema compatto. E si può anche capire che l’indignazione dei cittadini non abbia trovato risposte nelle forze politiche esistenti e che la sfiducia si sia diffusa preparando il terreno per nuove forze politiche che, non a caso, si sono presentate come “anti sistema” e “anti politica”.

È arrivato però il momento di imboccare una strada diversa partendo dalla consapevolezza che la politica fondata sullo strapotere dei partiti in grado di occupare ogni anfratto dello spazio pubblico raggiungibile dalle amministrazioni e dalle istituzioni non è la strada giusta per una democrazia. I partiti potrebbero realizzare un’auto riforma modificando i loro comportamenti magari aiutati da una piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione con una normativa che imponga la democrazia interna e la trasparenza. Una riforma profonda ci vuole, invece, per la magistratura. I capisaldi sono chiari: separazione delle carriere giudicanti e della pubblica accusa; separazione degli organismi di auto amministrazione e, quindi, riforma costituzionale del Csm scindendolo in due, modificandone la composizione per togliere la maggioranza ai magistrati che non devono più essere eletti in base ad una ripartizione in correnti; conferimento della funzione disciplinare ad un organismo terzo; limitazione dei poteri dei Pm; interdizione della comunicazione tra Pm e opinione pubblica avente ad oggetto le inchieste in corso.

È tempo che populismo e giustizialismo vadano in pensione. L’Italia che vuole riprendersi dalla crisi non ne ha alcun bisogno

Claudio Lombardi

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