Chi guiderà il recovery fund in Italia?
Oggi Manuela Perrone sul Sole 24 ore riprende un argomento su cui già molti hanno espresso la loro opinione e su cui è probabile che si adottino a breve, forse già settimana prossima, importanti decisioni.
Si tratta, infatti, di decidere a chi affidare e in che modo gestire la complessa questione della definizione dei progetti da sottoporre a Bruxelles per l’ottenimento dei fondi collegati al cosiddetto Recovery Fund. L’importo complessivo, seppure ancora da definire, è ingente, pari a circa 200 miliardi di euro solo per l’Italia. I progetti costituiranno il Piano nazionale di ripresa e resilienza e dovranno essere realizzati entro il 2026.
Una occasione unica per ridare slancio alla nostra economia e al tempo stesso, trasformarci in un paese tecnologicamente ancora più avanzato e rispondere con efficacia alla sfida del cambiamento climatico (limitandosi agli obiettivi principali).
Gli interessi in gioco sono enormi e, da quanto emerge dalle informazioni trapelate nei mesi scorsi (già dai cosiddetti Stati generali), le richieste di finanziamento andranno bene al di là della disponibilità, per quanto ingente. Il confronto fra autorità italiane e la Commissione europea è già in corso da qualche settimana e si intensificherà nei prossimi mesi.
Anche se sui tempi, oltre che sugli importi, vi è incertezza, in gran parte legata alla persistente opposizione di alcuni paesi della Unione europea a questo insieme di misure, i primi mesi del 2021 saranno cruciali.
Da osservare che Bruxelles manterrà saldamente i cordoni della borsa nelle proprie mani: in particolare, i fondi verranno erogati gradualmente e con tempistiche pattuite e predefinite. In caso di ritardo e di discrepanza fra piano e sua realizzazione, la Commissione UE semplicemente bloccherà i pagamenti.
È dunque essenziale che il Piano nazionale sia ben strutturato e veritiero per fare in modo che le buone intenzioni si traducano in investimenti, crescita e benessere.
Detto questo, ci sia consentito esprimere tristezza per un atteggiamento a cui nessuno, almeno sulla stampa, sembra opporsi. Infatti, la discussione, stando anche all’articolo del Sole citato in apertura, è saldamente ancorata sulle modalità di coinvolgimento in questa faccenda dei manager delle principali società di stato (Cassa Depositi e Prestiti, Enel, Eni, Ferrovie, Leonardo e Snam; Terna sembra essersi chiamata fuori). La giustificazione di questa scelta, talvolta espressa in modo del tutto esplicito, è la difficoltà espressa da parte della burocrazia statale nella gestione delle prime fasi della partita.
La tristezza nasce dalla elusione nella discussione corrente di un punto centrale del processo decisionale: le imprese e i manager non sono super partes, bensì importanti portatori di interesse in questo gioco.
Tra l’altro, pensare che i manager rinuncino ai loro ricchi emolumenti per assumersi un ruolo pubblico – pagato qualcosa tipo un decimo o anche meno dello stipendio attuale – è, diciamo così, ingenuo, mentre pensare che dalla loro posizione attuale possano guidare il tutto lascia, appunto, senza parole.
In questo scenario, ad esempio, le utilities locali, ormai imprese di una dimensione importante, al pari delle altre imprese, in particolare quelle private, potrebbero al massimo concordare con i grandi di stato un ruolo nel processo…
Non vi è notizia di scelte analoghe negli altri paesi della Unione europea. Se la macchina burocratica non funziona a dovere va sistemata. Compito difficile tanto quanto portare a compimento il Piano nazionale e forse anche di più, ma ineludibile.
Luigi Bonelli
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