I magistrati che difendono il loro potere
La prerogativa, anzi il dovere del magistrato, a fronte del quale non ci sono diritti suoi propri (se non quelli, trattandosi di un pubblico dipendente, di ricevere lo stipendio e di fare carriera) è soltanto quello di applicare le leggi approvate dal Parlamento, senza crearne di nuove attraverso interpretazioni, appunto, creative o strumentali o magari funzionali alle proprie inclinazioni politiche ( che ha il pieno diritto di esprimere nella cabina elettorale).
Altro dovere sarebbe quello di rispondere direttamente anche in sede risarcitoria, come chiunque altro, di errori gravi, senza poter contare sull’intervento dello Stato che, ancora oggi, se ne assume quasi per intero l’onere.
La magistratura non è un Potere ma un Ordine e, comunque, non costituisce un Corpo dello Stato che possa interloquire con i poteri dello Stato, all’interno del procedimento di formazioni delle leggi.
I singoli magistrati hanno certamente, come tutti, il diritto di associarsi e di rappresentare polemicamente le loro posizioni, ma non anche di entrare pubblicamente nel merito della fondatezza di singole leggi (il magistrato deve essere, ma anche apparire imparziale).
I magistrati hanno, quindi, il diritto di associarsi in un organismo sindacale che non sia, però inteso e vissuto, appunto, come Corpo dello Stato al quale sarebbe stata affidata la funzione di “controllo della legalità”( quasi come i guardiani della morale in Iran) come ha solennemente affermato in questi giorni un alto magistrato in occasione della apertura dell’anno giudiziario in Cassazione.
E proprio questo sembra essere il punto centrale intorno al quale da più di trenta anni si snoda la grande questione del rapporto politica/magistratura: il controllo di legalità il magistrato può e deve effettuarlo sul singolo caso sottoposto al suo giudizio, ma non anche, in generale, sullo stato di salute della legalità nel quale vive la società. Questo è appunto compito della politica.
Abbandonare l’aula quando parla il Ministro, sventolando una frase di Calamandrei che, peraltro, prima ancora di Giovanni Falcone e del “pentito” Di Pietro, si era pronunciato a favore della separazione delle carriere, non esprime un semplice dissenso, ma rappresenta un tentativo di delegittimazione del Parlamento, ponendosi come Potere che intende contrapporsi ad altro Potere.
E proprio questa sembra essere la dissimulata, altra, questione di fondo: i magistrati difendono un enorme e irresponsabile possibilità/privilegio di agire ed incidere nella vita pubblica ( grazie anche all’uso e spesso all’abuso della custodia cautelare e della irresponsabilità personale) del quale non gode neppure il Presidente della Repubblica, e vedono la separazione delle carriere, non come un mezzo per dare attuazione al principio Costituzionale del “giusto processo”, con un giudice terzo rispetto all’accusa e alla difesa, ma come un elemento di indebolimento di tale privilegio.
Pietro Bonanni (da facebook)
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