Il terrorismo, le nuove guerre e noi europei (di Salvatore Sinagra)
Il 1989 fu l’anno delle grandi illusioni. Con la caduta del muro di Berlino il mondo diviso in blocchi non fu rimpiazzato da un’alternativa pragmatica e sostenibile. Ben presto la pace liberale sponsorizzata da un unico egemone, gli Stati Uniti, si rivelò insostenibile. Già con la tragedia dei Balcani ci accorgemmo che le cose non stavano andando come fantasticavano dall’altra parte dell’oceano e a Srebrenica noi europei venimmo meno alla promessa fatta nel 1945 che mai più nessuno sarebbe morto per il suo credo religioso.
Con l’11 settembre anche i più ottimisti hanno dovuto prendere atto che non solo la storia non è finita, ma diversamente da ciò che affermava Francis Fukuyama, continua ed è pure una brutta storia. Prima di Charlie Hebdo i fondamentalisti islamici avevano già insanguinato l’Europa diverse volte: nel 2004 191 persone persero la vita a Madrid a causa di un attentato ai treni locali; nel 2005 furono uccisi 52 innocenti nell’attacco alla metropolitana di Londra. E questi sono solo quelli più importanti.
Non tutti i terroristi sono di matrice islamica però. Nel 2011 il terrorista di estrema destra Anders Breivik, nemico giurato dell’Islam, annientò 77 innocenti nei pressi di Oslo.
Non si contano poi attacchi a moschee, sinagoghe o a centri urbani, che da Lione a Stoccolma, passando per Bruxelles, hanno colpito la vecchia Europa
I sentimenti xenofobi sono divenuti sempre più forti anche in paesi molto avanzati sotto il profilo della convivenza come la Svezia, la Francia e la Germania. 7.000 ebrei francesi l’anno scorso si sono trasferiti in Israele a causa di un nuovo antisemitismo, che fa proseliti sia tra l’estrema destra nostalgica, che tra i sostenitori della causa palestinese e tra gli immigrati di seconda e terza generazione di origini arabe. Nemmeno gli ebrei progressisti, favorevoli allo Stato Palestinese, appaiono immuni da attacchi antisemiti
Dopo il 1989 non solo il numero dei conflitti è drammaticamente cresciuto, ma le guerre hanno cambiato pelle. Sono sempre meno combattute da due o più Stati e sempre più sono conflitti civili, che non colpiscono più in prevalenza militari. Al fianco o in sostituzione dei soldati combattono paramilitari e gruppi criminali. Quindi non solo gruppi islamisti, ma anche le triadi e organizzazioni di narcotrafficanti.
Le nuove guerre sono allo stesso tempo moderne ed antiche. Sono moderne perché sono poste in essere da reti multinazionali se non addirittura globali, utilizzando sistemi di finanziamento avanzati e sistemi di reclutamento che non potrebbero prescindere da internet e dai social network; sono antiche perché puntano al massacro indiscriminato.
Il neologismo glocalizzazione, coniato da Zygmunt Baumann, rappresenta bene le agenzie dei disordini globali che riescono a creare una miscela esplosiva fondendo differenti disagi in ambito locale. Si pensi per esempio ai giovani francesi e tedeschi figli di immigrati provenienti da paesi arabi che vivono un profondo senso di esclusione nel loro paese, che sono fortemente contrariati per le vicissitudini dello Stato palestinese e decidono di abbracciare la causa dell’ISIS andando a combattere in Siria.
La situazione internazionale è complicata anche dal progressivo deteriorasi dei rapporti con la Russia. Le organizzazioni internazionali che dovrebbero governare la globalizzazione quali l’Onu o il Fondo Monetario Internazionale sono impotenti o delegittimate.
Gli approcci tipici della guerra fredda, che spesso gli Stati occidentali sembrano sposare sono assolutamente superati. Il conflitto con l’Unione Sovietica non si trasformò in una guerra nucleare poiché entrambe le parti erano pienamente consapevoli del rischio della reciproca distruzione. Le testate nucleari e gli arsenali venivano accumulati per acquisire lo status di superpotenza ma nella piena convinzione che non sarebbero mai potute essere utilizzate da nessuna delle due parti in causa. Il collasso dell’Unione Sovietica ha portato ad una maggiore disponibilità di armi di distruzione di massa da parte di stati molto più instabili dei protagonisti della guerra fredda. Si pensi per esempio al Pakistan, paese in possesso di un arsenale nucleare, ma perennemente esposto al rischio di un colpo di Stato. E certamente la deterrenza tipica della guerra fredda non funziona nei confronti del terrorismo.
Cosa possono fare gli Europei?
Oggi siamo giustamente scossi da un attentato che ha colpito al cuore l’Europa, tuttavia, a causa delle caratteristiche “glocali” della violenza organizzata, anche i morti che fa Boko Haram in Nigeria o i bambini uccisi a Pashawar sono una minaccia alla nostra sicurezza.
Va senza dubbio accolta positivamente la proposta di creare un’intelligence europea, ma occorre fare molto di più.
L’Unione Europea deve compiere un grosso sforzo in politica estera, imponendo uno Stato per i palestinesi e contribuendo in modo attivo a smantellare lo Stato Islamico. Sotto questo profilo non basta certo l’azione militare, occorre isolare i fondamentalisti soprattutto sul piano finanziario. A tal proposito occorrerebbe pretendere azioni concrete dalle monarchie del Golfo e dai sauditi, importanti alleati degli Stati Uniti nel confronto con Mosca almeno dai tempi di Reagan ma sospettati di intrattenere rapporti con l’ISIS.
Un importante campo di azione deve essere poi la lotta alle diseguaglianze, in Europa come nel mondo arabo. I giornali francesi e tedeschi hanno raccontato le storie di molti immigrati di seconda, terza se non addirittura quarta generazione che hanno deciso di abbracciare la guerra del fondamentalismo islamico e di andare a combattere in medio oriente; le vite di molti di loro sono storie di esclusione di giovani che passano il loro tempo tra facebook, palestra e moschea e che spesso si sentono meno europei dei loro genitori nati in Algeria, Turchia o Medio Oriente. Inoltre, come sottolinea l’economista francese Thomas Piketty, in un articolo pubblicato su Libération dal titolo diseguaglianze esplosive, la insostenibile situazione politica di Iraq e Siria è figlia di una iniqua ripartizione dei proventi delle materie prime, che va a vantaggio di poche petro-dinastie. Se per rispondere alle diseguaglianze di casa nostra serve un New Deal europeo che crei una crescita che sia messa la servizio della lotta alla povertà, per rispondere alle diseguaglianze ed agli squilibri a sud e ad est dell’Europa serve un’ambiziosa riforma delle istituzioni internazionali a partire da ONU, FMI e WTO
Salvatore Sinagra
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!