Non solo salario minimo contro il lavoro povero

Salario minimo sì o no? Il dibattito è aperto. Fra i tanti interventi pubblichiamo alcune parti di un articolo di Francesco Armillei e Ivan Lagrosa tratto da www.lavoce.info

Il testo integrale con i grafici lo si può leggere QUI

Perché il salario minimo orario non basta

Una delle motivazioni principali utilizzate nel dibattito pubblico italiano per sostenere l’introduzione di un salario minimo risiede nella necessità di arginare la diffusione del lavoro povero. Sul sito della petizione salariominimosubito lanciata dalle forze di opposizione si legge, per esempio, come in Italia ci siano più di tre milioni di persone che pur lavorando risultano povere. Tuttavia, come più volte sottolineato anche su lavoce.info (qui qui) un intervento sul salario minimo orario, indipendentemente dalla cifra, non può considerarsi come risolutivo, per vari motivi. Tra questi c’è il fatto che il salario complessivo di un lavoratore non dipende solo dalla sua paga oraria – su cui la norma in discussione vorrebbe intervenire – ma anche e soprattutto dalla quantità di ore lavorate nel corso di un anno. Come hanno sottolineato su lavoce.info Daniele Checchi e Cecilia Garcia-Penalosa, le differenze nelle ore lavorate tra lavoratori spiegano una parte significativa delle disuguaglianze di reddito e del loro andamento nel tempo. E la quantità di ore lavorate è anche una delle cause principali della povertà lavorativa, come ribadito dalla Relazione del gruppo di lavoro ministeriale sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia del 2021.

Le tre variabili chiave

Per capire meglio l’interazione tra un possibile minimo salariale e la povertà lavorativa, consideriamo le tre variabili chiave che sono qui in gioco: il salario complessivo di un lavoratore durante l’anno – che determina l’essere o meno in una condizione di relativa povertà lavorativa, il suo salario orario e il numero di settimane lavorate nell’anno. Lo facciamo utilizzando i dati Inps-LoSaI, un campione dei lavoratori dipendenti italiani che traccia le carriere lavorative nel corso del tempo. Come misura di salario complessivo annuale utilizziamo la somma dell’imponibile contributivo di tutti i contratti relativi a ciascun lavoratore per l’anno 2019. Tale misura di reddito include quindi eventuali tredicesime, quattordicesime e altri compensi soggetti a contribuzione. Dal campione escludiamo i lavoratori che hanno lavorato meno di un mese durante l’anno di riferimento, per evitare di catturare esperienze lavorative estremamente saltuarie e non significative. Anche per le settimane e per le ore lavorate effettuiamo una somma per ciascun lavoratore rispetto a tutti i contratti attivi nel 2019, assumendo una settimana lavorativa di 40 ore per i contratti full-time e adeguando proporzionalmente il monte ore per quelli part-time. La misura di salario orario che otteniamo fa quindi riferimento al salario orario medio nel corso dell’anno ed è calcolata dividendo il salario complessivo per il monte ore totale. La soglia di povertà lavorativa viene individuata prendendo a riferimento il reddito complessivo guadagnato durante l’anno. Stiamo qui adottando un approccio alla povertà di tipo individuale (non famigliare) e relativo (non assoluto). Utilizziamo come soglia il 60 per cento del salario complessivo mediano e, così facendo, otteniamo una cifra di €12.700 euro – in linea con quanto indicato dall’Istat in una recente audizione parlamentare. Il 29 per cento dei lavoratori presenti nel nostro campione si trova al di sotto di tale soglia, in una condizione quindi di povertà lavorativa. (…)

Un basso salario orario non sembra quindi accompagnarsi, in media, a un basso salario complessivo guadagnato durante l’anno. Lavoratori con livelli di reddito annuale molto diversi tra loro risultano infatti occupati con un salario orario molto simile. Ciò che invece contraddistingue i dipendenti sotto la soglia di povertà lavorativa, rispetto agli altri lavoratori, sembra essere il numero di settimane lavorate durante l’anno. I lavoratori con un reddito annuo al di sopra della soglia di povertà lavorano in media 51 settimane durante l’anno, mentre quelli al di sotto della soglia non superano le 30 settimane. (….) Il lavoro povero sembra quindi principalmente attribuibile al tempo (non) lavorato e non all’ammontare del salario orario. Per completare il quadro è opportuno notare come ci sia una stretta connessione tra il numero di settimane lavorate nell’anno e il salario orario medio guadagnato. Per esempio, i lavoratori che guadagnano in media meno di 9 euro orari sono proprio coloro che lavorano relativamente meno settimane durante l’anno – in media 35 contro le 47 di chi guadagna più di 9 euro l’ora. Un eventuale innalzamento del salario orario per coloro al di sotto della soglia dei 9 euro orari riguarderebbe quindi principalmente lavoratori che risultano impiegati per relativamente poche settimane durante l’anno e avrebbe un effetto marginale sul loro salario complessivo annuale.(…)

I dati sin qui proposti mostrano l’importanza di un approccio multidimensionale per affrontare il problema della povertà lavorativa. Benché la quantificazione dei 9 euro rimanga fonte di grande perplessità – sia per il metodo con cui è stata effettuata sia per il rischio di possibili effetti collaterali – l’introduzione di un salario minimo orario è sicuramente un tassello importante del quadro. La misura interesserebbe in particolare una porzione piccola della forza lavoro, quella non coperta dalla forza del sindacato tradizionale, specialmente come forma diretta e trasparente del livello di retribuzione minima cui si avrebbe diritto. Governo e opposizioni dovrebbero tuttavia arricchire la loro agenda con misure che intervengano su almeno altri quattro fronti: il fronte contrattuale – ragionando su possibili limitazioni alle forme di lavoro atipico, come i part-time e i contratti a tempo determinato di durata brevissima; il fronte fiscale – con un in-work benefit per sostenere i redditi bassi e favorire l’emersione del sommerso; il fronte industriale – orientando l’industria italiana verso lavori a maggiore valore aggiunto; e il fronte formativo – investendo nelle competenze dei lavoratori.

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