Ucraina: la tortura delle città

Un articolo di Flavio Fusi tratto da www.succedeoggi.it

Bakhmut, Mariupol, Kherson, Mykolaiv come Vukovar o Sarajevo: le nuove guerre puntano a distruggere la civiltà delle città. È un modo subdolo e terribile per cercare di fermare il tempo e imporre la logica medioevale della distruzione del nemico.

Bakhmut è una città di parchi e ampi giardini, di traffico ordinato, di case popolari e quartieri residenziali, una piccola pacifica città accampata proprio sulla linea di frontiera tra Russia e Ucraina. Le foto di un anonimo tempo di pace sono state postate qualche settimana fa su Facebook da un abitante della cittadina: un profugo, un rifugiato in fuga dalla tortura inflitta dai russi e dai mercenari della Wagner.

Oggi la prima foto di Bakhmut sgominata è una tempestosa immagine di spezzoni anneriti, case sventrate come da un terremoto, terra dissodata dalle bombe fino alle fondamenta. Una città-spettro, dove i cittadini che ancora restano sono i cadaveri senza nome che marciscono sepolti dalle macerie. Sembra che incomba su quello che resta della città un fosco temporale, una minaccia cosmica, un vento atomico.

Così, le foto serene del tempo di pace – affidate al mondo da uno sconosciuto come un ultimo messaggio in bottiglia – diventano le immagini della mia personale, immaginaria, ultima volta a Bakhmut. Non conosco questa città, non ho mai passeggiato lungo le sue strade, ma a Bakhmut io ci sono stato, a Bakhmut noi tutti abbiamo abitato nel tempo infinito di questa agonia. Come siamo stati a Mariupol prima che fosse massacrata dalla vendetta russa: «da lì non deve uscire nemmeno una mosca», comandò Putin. Siamo stati lì nei giorni di pace – noi testimoni impotenti – e ora siamo dentro la guerra fino alle scarpe, fino alle ginocchia.

Vogliamo parlare di pace e invocare la trattativa di fronte a questo strazio? Vogliamo sventolare le nostre bandierine e metterci in pace con la nostra trepida coscienza di fronte a questa ferocia? È successo lo stesso – prima negare e poi tacere, volgendo altrove lo sguardo – davanti al teatro di Mariupol schiacciato da tonnellate di bombe e ridotto a sepoltura per centinaia di infelici. È successo con le fosse comuni di Bucha e Yrpin, prima negate, poi ignorate e in breve dimenticate. Ci siamo consolati – vi siete consolati – con un mantra vigliacco: è la guerra, la guerra è cattiva e poi ci sono tante altre guerre nel mondo. Che vile stratagemma da sepolcri imbiancati: pesare sulla bilancia del farmacista i morti di Kiev e le vittime di tutte le stragi del nostro pianeta. Tutto per assolvere la nostra indifferenza, la nostra arida assenza di compassione. È profondamente disonesto e immorale affogare i morti di una guerra di aggressione – di questa guerra di aggressione – nell’oceano della “storia universale dell’infamia”. Se ha ragione Juan Gelman quando scrive che «è il volto che conta, e non il numero» parlando dei neonati rapiti alle loro madri dalla dittatura argentina, dobbiamo allora ricordare anche il nome e il volto dei morti di Bakhmut, di Bucha, di Irpin, di Mariupol, di Kherson, di Mykolaiv. E anche il nome – uno per uno – dei bambini uccisi nella notte di Kiev, nelle loro camerette, dai missili di Putin.

È vero, la guerra ha il potere mortifero di tenerci aggrappati al presente: un presente che oggi appare senza radici e senza storia. Accade poi che un amico pubblichi ancora su Facebook un breve video girato a Vukovar nel 1991 dopo la presa della città da parte dell’esercito serbo, al termine di un sanguinoso assedio durato ottantasette giorni. Sono trascorsi più di trent’anni. Direte: questa è preistoria! Ma ecco che Vukovar del 1991 è proprio identica a Bakhmut del 2023: lo stesso selvaggio accanimento, le stesse case ridotte a mozziconi fumanti e cieche quinte teatrali, lo stesso deserto di vita, lo stesso cielo che incombe tempestoso.

Su quelle strade ingombre di macerie ho camminato trenta anni fa: anche la bella Vukovar stava appollaiata da secoli lungo una frontiera pacifica che si trasformò ben presto in un fiume di sangue. Dopo la caduta della città i soldati serbi ripulirono quello che restava dei vivi gettando granate dentro le cantine dove avevano cercato scampo intere famiglie. Poi passarono i miliziani di Seselj e Arkan – i Tigrotti e le Aquile bianche – a rubare tutto e a finire il lavoro con il coltello. Finire il lavoro con il coltello: anche a questo ci hanno abituato le milizie mercenarie della Wagner e i ceceni assetati di sangue del vassallo di Mosca Ramzan Kadyrov.

Bakhmut come Vukovar e come Sarajevo, rimasta sotto assedio per più di millequattrocento giorni, dal ’92 al ’96. E come Aleppo del 2012 ridotta a un cumulo di macerie dai miliziani del despota Bashar al Assad amorevolmente assistiti dai soldati di Putin. E come Grozny nel passaggio del secolo, spianata dai carri armati russi, e così massacrata che i vincitori furono costretti a ricostruirla dalle fondamenta, trasformandola nel mostro che è oggi: una nuovissima città senz’anima in puro stile imperial-sovietico: in centro larghi viali e monumenti e palazzi, e i poveri ammassati in cenciose periferie senza nome.

L’accanimento contro le città è simile all’accanimento contro gli umani, le popolazioni e le comunità. Tra il vecchio e il nuovo secolo abbiamo imparato una nuova parola – pulizia etnica – e spesso ci capita di usarla in modo leggero e inappropriato, facendo torto al suo orribile significato originario. Oggi – e forse è troppo tardi – è il momento di imparare e tenere a memoria un’altra parola feroce: urbicidio. Fu il serbo Bogdan Bogdanovic – architetto famoso e militante antifascista – a coniare già negli anni Ottanta del secolo scorso la parola che oggi ci rappresenta. Intendeva, Bogdanovic, l’attacco che nelle guerre jugoslave fu portato alle città e alla società cosmopolita che esse rappresentavano. Per Bogdanovic l’urbicidio non è solo la distruzione sistematica e programmata della struttura-città, ma anche e soprattutto «una opposizione manifesta e violenta ai più alti valori della civiltà»: la distruzione simbolica della variegata e libera cultura espressa dalle città, il cosmopolitismo e la tolleranza, lo spirito stesso della convivenza urbana.

Bogdanovic conosceva bene gli spiriti del tempo: egli stesso fu sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986, una città che nella sua storia millenaria ha subito l’oltraggio di decine di distruzioni. Bisognerebbe studiarla davvero la vita di questo grande intellettuale e patriota, che negli anni ottanta – gli anni dell’accecamento nazionalista della Jugoslavia – rinuncia al proprio posto nell’Accademia delle scienze di Serbia e subito dopo ha il coraggio di scrivere una lettera aperta di contestazione al duce Milosevic, allora al vertice del potere.

Dunque nulla accade per caso, anche nelle guerre che sembrano più insensate, come questo assalto a sangue freddo a un Paese pacifico, alla sua comunità laboriosa, alle sue città indaffarate. Come all’inizio degli anni Novanta l’assedio di Sarajevo fu concepito e perseguito dai “montanari” serbi invidiosi dell’apertura al mondo di questa piccola-grande città cosmopolita, così oggi la distruzione sistematica di Mariupol e Bakhmut e l’assedio a Kiev sono operazioni condotte sul campo da milizie assoldate, da feroci capitani di ventura e da truppe reclutate dai più lontani e remoti confini dell’impero russo e mandate al macello ai confini dell’Europa.

Bogdan Bogdanovic volle onorare con la sua opera le comunità che più avevano sofferto nelle dissennate guerre balcaniche. È suo il Memoriale di Jasenovac, il famoso Fiore di pietra che oggi svetta sul luogo dove gli Ustascia croati fondarono un famigerato campo di sterminio in cui morirono decine di migliaia di serbi, rom, ebrei e antifascisti. È di Bogdanovic il Cimitero partigiano di Mostar, che con le sue 661 lapidi e le sei terrazze ricorda i caduti di tutti i gruppi etnici che lottarono insieme per liberare la Bosnia Erzegovina nella seconda guerra mondiale. La tortura delle città continua oggi nell’assalto all’Ucraina. Oggi tocca a Bakhmut, a Mariupol, a Mykolaiv, assediate conquistate e distrutte fin nelle fondamenta. Ma tocca anche a Mosca, che Putin e i suoi accoliti hanno trasformato in protagonista silente e colpevole, complice del misfatto. Quando ci metteremo alle spalle questa guerra un memoriale bisognerà costruirlo anche a Mosca. Come il Fiore di Bogdanovic: un memoriale gemello nelle città torturate e nella capitale russa ieri orgogliosa e compassionevole, oggi ridotta a fosco nido di vipere da una banda di stupratori.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *